Società

G7, SCOPPIA
LA MINA HEDGE

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(WSI) – Al G7 di Essen di questo weekend, tra scenari di finanza pubblica e temi ambientali, fa il suo esordio assoluto il problema della regolamentazione degli hedge fund. Forse non è un caso che se ne parli nel semestre della presidenza tedesca, visto che in Germania la soglia di ingresso è bassa (a differenza dell’Italia, dove è di 500mila euro) e ciò ha contribuito a un’ampia diffusione di questi strumenti tra i risparmiatori.

Ma la ragione di fondo è che gli hedge fund sono ormai percepiti come un soggetto chiave ai fini della stabilità finanziaria dell’area euro. In primo luogo, per le dimensioni che hanno assunto: secondo stime della Bce, la massa gestita dagli hedge a metà 2006 sfiorava i mille miliardi di dollari, con un tasso di crescita del 30% nei dodici mesi precedenti.

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L’ordine di grandezza e la velocità di espansione sono solo un aspetto del problema. Un altro è che gli hedge sono soggetti non regolamentati, al punto che non è neppure possibile darne una definizione univoca, anche a causa del fiorire delle tipologie più disparate: sotto la stessa etichetta convivono, infatti, fondi altamente speculativi e prodotti con volatilità inferiore ai titoli governativi. Tra le autorità monetarie c’è quindi la convenzione di definirli per quello che «non» sono: ovvero tutti i prodotti del risparmio gestito che non sono fondi comuni, fondi immobiliari, pensionistici, chiusi, eccetera. Inoltre, sono soggetti apolidi, domiciliati in tutti i paradisi fiscali del globo, circostanza che li rende ancora più opachi.

Una delle loro tipiche strategie operative è fonte di ulteriori preoccupazioni: puntando molto sulle cartolarizzazioni, gli hedge sono uno dei motori della trasformazione (e del trasferimento) in corso dal rischio di credito al rischio di mercato. Un tempo la distinzione tra questi due rischi era netta, e il rischio di credito era sorvegliato direttamente dalla vigilanza che le Banche centrali esercitavano sulle aziende di credito. Ma da quando queste hanno iniziato a cartolarizzare i crediti in titoli, non solo si è modificata la natura del rischio, ma è anche molto meno chiaro dove è andato a finire: probabilmente, e in parte non piccola, nelle tasche dei sottoscrittori degli hedge.

Il diavolo, come spesso accade, non è così brutto come lo si dipinge. La crescita dei mercati finanziari ne ha anche aumentato la solidità, e anche agli hedge va ascritto il merito della bassa volatilità che da tempo caratterizza le Borse. Così è capitato che il fallimento di Amaranth abbia avuto ripercussioni modeste, neppure lontanamente paragonabili all’ondata di panico che si diffuse sui mercati mondiali sul finire degli anni Novanta, di fronte al default del fondo Ltcm. Ma lo stesso fallimento di Amaranth, società di gestione di hedge che ha perso 6,5 miliardi di dollari in settembre giocando sui derivati del gas, è un segnale che non va sottovalutato, soprattutto se altri crac dovessero verificarsi non in un clima rialzista come quello dello scorso autunno, bensì in uno scenario di maggiore incertezza.

Quale sarà la strada imboccata da Bruxelles? I percorsi possibili sono tre. Una prima ipotesi – per la quale ieri il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, ha espresso la sua preferenza – è che siano gli stessi hedge a darsi un codice di condotta al quale attenersi. Il secondo percorso da considerare è che siano le autorità monetarie a muoversi nella direzione di un più attento monitoraggio del rischio, creando una sorta di centrale dei rischi. Il terzo è che sia l’Unione europea a imporre direttamente delle regole di trasparenza agli hedge: un’ipotesi alla quale gli interessati si oppongono duramente. E non sarà facile convincerli, considerato che hanno sede in luoghi remoti e inaccessibili. Ma la clientela sta qui, nella vecchia e iper regolamentata Europa. E a Essen si comincia.

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