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C’ ERA UNA VOLTA LA BALENA BIANCA

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(WSI) – È stato sublime il gesto di Marco Follini, mercoledì pomeriggio a Montecitorio. Sparava il suo discorso a Silvio Berlusconi, leggendolo da un mazzetto di foglietti che, via via, scartava. Ma in che modo li scartava? Posandoli sul banco? Macché, li passava con noncuranza regale al famiglio che gli sedeva accanto. Che, in realtà, famiglio non era, trattandosi di un deputato dell’Udc, investito del delicato incarico di raccattapagine.

Mi ha affascinato il gesto folliniano, perché vi ho avvertito il segno di altri tempi, la risonanza di un’età lontana. Dell’epoca in cui la Democrazia cristiana esisteva ed era potente. E tutti i leader bianchi, alla Camera e al Senato, nelle occasioni storiche, avevano accanto il proprio raccattafogli. Affinché neppure una riga del loro verbo andasse dispersa. E, alla fine, il prezioso malloppo fosse pronto per l’archivio del partito.

Ma sì, diciamolo. Se la Dc, la mamma Dc, ha partorito una razza mammona, il giovane Follini è l’ultimo esemplare di quella etnia. Non da solo, certamente. Però di sicuro il più simile agli antenati e il più capace di riprodurli. Follini è l’uovo di dinosauro nascosto nella giungla di Jurassic Park. Dunque dovrebbe tutelarlo come una reliquia attiva chi oggi sogna di resuscitare la Dc.

Un’impresa facile o difficile, questo ritorno al passato? Io la reputo impossibile, prima ancora che inutile o dannosa. E lo dico da testimone. Che nel corso degli anni ha visto Mamma Dc super-potente, poi in declino, quindi in agonia e infine ghermita dalla morte.

Nel tempo del trionfo, la Dc comandava con il pugno di latta nel guanto di lanetta. Il suo regime c’era. Però apparteneva al genere soffice, bonario, segnato da una voracità cautelosa, pronta più alla mancia che al randello. Esistevano delle eccezioni a questa regola, e le vedremo. Ma il suo potere, esercitato per decenni senza antagonisti in grado di batterlo, aveva finito con il diventare una rete a maglie larghe. Dove pure chi si opponeva, il Pci per primo, non aveva motivi per iscriversi alla categoria dei martiri.

Se ripenso al mio lavoro di cronista della Balena bianca, la memoria mi restituisce il ricordo di un partito tollerante. Potevi scrivere le peggiori cose sulla Dc, però nei loro santuari, nei consigli nazionali, nei congressi, ti accoglievano sempre con il tappeto rosso e il sorriso sulle labbra. La battuta più cattiva me la scoccò Giulio Andreotti, quando mi sorprese nell’atrio di piazza del Gesù mentre prendevo degli appunti stando in piedi: “Ma che fa? Le contravvenzioni?”.

Qualcuno mi chiederà: era tolleranza o menefreghismo da super-potere? Era l’una e l’altro insieme. La Dc possedeva tutto. E poteva contare su tutti. I preti e la polizia. La Confindustria e la burocrazia statale. I magistrati e la Coldiretti. La sanità e le Casse di risparmio. I servizi segreti e la Confcommercio. Nelle aziende pubbliche faceva quel che voleva. Andava così all’Iri, all’Eni, nelle banche di Stato, alla Rai. Già, la Rai! In quel tempo, ci comparivi soltanto se la razza mammona ti firmava il passi. Un timbro indispensabile anche per chi ambiva a dirigere giornali pubblici.

Soltanto in seguito, qualche lotto sarebbe stato appaltato al Psi e al Pci, non sempre con esiti memorabili. Era la tecnica della mancia. Che poteva produrre effetti mostruosi quando veniva applicata alla spesa pubblica, ossia ai conti dello Stato. Qui Mamma Dc aveva escogitato una teoria speciale: il bilancio è come un mercato. Dove tutti possono servirsi a prezzi di favore e talvolta senza pagare.

Qualche Cassandra strillava: in questo modo andremo tutti a fondo! La Balena bianca domandava: quando accadrà?, domani, fra un anno, fra dieci? Ma domani sarà un altro giorno. Dunque, che la festa continuasse pure. Con l’avallo tacito dell’odiato avversario comunista, i senzadio dell’Elefante Rosso. Felici di chiudere entrambi gli occhi. E di compensare così la propria impotenza a scalzare i maledetti dicì.

Sarebbe una iattura rimettere al mondo un partito siffatto. Ma comunque chi volesse cimentarsi in questo esperimento da dottor Frankenstein, troverebbe un ostacolo insormontabile. Che non è la mancanza dei voti democristiani. Quelli esistono ancora, dispersi in tutto l’arco politico. A non esserci più sono gli uomini che, nel bene e nel male, avevano reso grande la Balena. Ossia i capi democristiani di cui si è persa la memoria. Gli esemplari decisivi della razza mammona. Dei giganti, anche negativi, rispetto agli odierni Follini, Casini, Mastella, Marini, Tabacci, D’Antoni & C.

Tutti imparagonabili ai prototipi che adesso ricorderò. Tentando una classificazione arbitraria, ma spero chiarificatrice. Comincerei con i Sedanti, dal verbo sedare, tenere tranquillo il cittadino qualunque, il popolo bue. Fu questa la magia della Dc, partito non ansiogeno per vocazione. Da quanti ho sentito dire: voto dicì perché mi fa vivere in pace! Del resto, era quel che prometteva l’inno della Balena, in una strofa poco conosciuta: “O bianco fiore / simbol d’amore / con te la pace /che sospira il cor!”. Rammento dei Sedanti formidabili. Come Arnaldo Forlani, il Coniglio Mannaro. O Mariano Rumor, tutto il contrario del suo cognome. E poi Emilio Colombo, tanto serafico da stare ancora su piazza all’età di 84 anni. E naturalmente il leader più grande e tragico, Aldo Moro.

Tra i Gatti di Marmo, i capi dal forte potere mai esibito, anzi sempre celato, spiccava Toni Bisaglia. Una bestia da combattimento, però con l’aria del gattone da sacrestia. Freddo, astuto, formidabile nella manovra politica come negli affari. Partendo dalle nebbie di Rovigo, era diventato uno dei re della foresta dorotea. Un giorno mi disse: “Non farò mai il segretario della Dc, ma sarò sempre uno dei pochi che lo decidono”.

Un altro micione era Nino Gullotti, il principe di Messina, anche lui fedele di Santa Dorotea. Calvo, pallido, silenzioso e scapolo, veniva chiamato “il Santo”. Dicevano di lui: “Il Santo ha sposato la Dc”. Possedeva il 41 per cento di tutte le tessere bianche di Sicilia.

Erano un titolo al portatore. Potevano essere consegnate a chiunque. A parenti stretti. A emigrati. A defunti. A vivi pescati a caso sull’elenco del telefono. Zeppo di tessere era anche Remo Gaspari, pacioso ras dell’Abruzzo. Un ras ben celato mi sembrava pure Paolo Emilio Taviani. Andai a trovarlo nella casetta di Bavari, sopra Genova, un arredo da canonica di campagna e il ritratto di Don Bosco alla parete. E lui esclamò subito: “Ah, che bella donna è il potere!”.

Venivano poi gli Infuriati. Il capofila era Amintore Fanfani. Sempre agitato al limite della furia mi appariva Flaminio Piccoli. E come scordare Carlo Donat Cattin? Un combattente solitario, ai congressi senza truppe cammellate. Sapeva guardare lontano, questo torinese scabro. E fu uno dei primi a intuire che la marcia trionfale della Balena sarebbe diventata una marcia funebre. Ringhiava: “La Dc sta finendo. Ormai l’uccello padulo vola all’altezza del culo…”.

Tra i Velleitari, con aspirazioni buone, ma spesso eccessive e confuse, metterei Francesco Cossiga. Noi cronisti carogne gli dobbiamo l’onore delle armi: sopportava tutto, senza una querela o una causa civile. Però il campione vero era Ciriaco De Mita. Tanto fiducioso di se se stesso da leggere una relazione congressuale di sei ore. Prima di un’intervista esordiva così: “Tu non mi capisci, non puoi capirmi”. Tutto l’opposto del numero uno delle Anime Buone: Benigno Zaccagnini, segretario nei giorni del sequestro Moro, dilaniato tra l’affetto per il capo prigioniero e il dovere della fermezza.

Adesso siamo alle Tigri, i duri capaci di azzannare. Salvo Lima, quasi muto, inavvicinabile, padrone di Palermo e finito accanto a un cassonetto dell’immondizia, assassinato da un commando mafioso. Il suo avversario Giovanni Gioia, sei volte deputato e ministro. Anche lui ti fissava in silenzio, con occhi a biglia chiari e freddi. Mascella quadrata. Labbra carnose. Il doppiopetto gessato come il professore tedesco di “Giungla d’asfalto”. Alberto Alessi, della sinistra dicì, mi chiese: “Ha notato lo sguardo di Gioia? È vitreo e fecondativo di pensieri strani”. E poi Antonio Gava, un sovrano assiso sul golfo di Napoli. Si atteggiava a intellettuale. Gli domandai: “Qual è l’ultimo romanzo che ha letto?”. Lui mi spiazzò, sogghignando: “La mia vita è un romanzo. Ci sta di tutto. Ecco, io leggo quello!”.

E infine l’Inclassificabile: Andreotti. A 85 anni, siede ancora a Palazzo Madama, senatore a vita, profilo da uccello, ingobbito sotto un carico di misteri che non ci rivelerà mai. Chissà se rimpiange la sua ombra, Franco Evangelisti. Era un altro campione di astuzie. Sempre generoso anche con i cronisti che sapeva poco benevoli con il suo capo. Al contrario di De Mita, diceva: “Vieni qui che ti aiuto a capire, testa di c…”. Di solito lungimirante, una volta sbagliò, spiegandomi: “La Dc governerà fino al Duemila, perché sò stronzi gli altri!”.

Allora il Duemila sembrava lontanissimo. E tutti i capi della Balena si credevano immortali. Neppure il declino personale incrinava la loro fiducia d’acciaio. Quando già non contava più nulla, Rumor proclamò: “Noi dorotei siamo come la foresta amazzonica: più ne tagliano, più ne cresce”. Poi arrivò il Novantadue di Antonio Di Pietro. E anche la Dc morì. Bisogna rimetterla in vita? Ma non scherziamo, per favore.

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