Società

BANCHE, LA GUERRA DEI GIGANTI

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*Con questo articolo, il professor Mario Deaglio comincia la sua collaborazione con Economy e con Wall Street Italia.

Sarà la tedesca Deutsche Bank, la svizzera Ubs o la statunitense Bank of America ad acquistare una quota importante della National Bank of China? Difficile dirlo, dal momento che il governo di Pechino, proprietario di questo gigantesco istituto di credito cinese, sta trattando con tutte queste banche la possibile vendita di quote azionarie prima del lancio della società in Borsa; in ogni caso, per la comunità finanziaria le operazioni di questo tipo, transculturali prima ancora che transcontinentali, segnano l’inizio di una nuova era.

È in atto, infatti, un riposizionamento globale della finanza di cui le grandi ondate di fusioni bancarie che scuotono Europa e America costituiscono l’aspetto più visibile. Le leggi della banca, a differenza di quelle della fisica, impongono che, per continuare a stare a galla, gli istituti di credito diventino più «pesanti», ossia dispongano di maggior capitale; è probabile, quindi, che molte banche, che oggi a noi sembrano grandi, in futuro siano considerate soltanto medie e siano in ogni caso condannate a fondersi con altri istituti di credito nel tentativo di raggiungere una massa critica sufficiente per stare sul grande mercato del mondo.

Negli Stati Uniti, il numero delle banche si è quasi dimezzato in vent’anni, in Italia in un decennio è cambiato completamente il panorama bancario, dal Canada all’India, dalla Gran Bretagna al Giappone grandi fusioni bancarie sono state realizzate recentemente oppure sono allo studio. I tentativi del gruppo spagnolo Bbva e dell’olandese Abn Amro, di prendere il controllo di Bnl e di Antonveneta non sono affatto casi isolati bensì il riflesso di un grande cambiamento mondiale.

Le banche sono costrette al cambiamento dalla logica dei costi e ricavi in un mercato finanziario sempre più concorrenziale. Nell’era dell’elettronica, una parte crescente dei costi dell’attività bancaria è rappresentata da spese fisse di natura informatica con operazioni in gran parte automatiche. Siccome il costo informatico diretto di un cliente in più è praticamente nullo, l’aumento del numero dei clienti consente di «spalmare» queste spese riducendo il costo unitario delle operazioni; inversamente, solo banche con molti milioni di clienti possono investire miliardi di euro in servizi sempre più sofisticati.

L’effetto dell’elettronica sulle dimensioni delle banche non si ferma qui: ha reso istantanee le operazioni bancarie in ogni parte del mondo, acuendo la competizione e riducendo i margini degli operatori. Siccome si guadagna meno su ciascuna operazione, un elevato livello di profitti si raggiunge solo con un gran numero di operazioni: solamente chi è in grado effettuare milioni di operazioni riesce veramente a soddisfare le aspettative di profitto degli azionisti e del mercato in generale. E se non si soddisfano queste aspettative, si finisce immediatamente nei guai.

Il mondo è quindi destinato a diventare il campo di battaglia sul quale si affrontano pochi giganteschi gruppi bancari? Non corriamo troppo. Sulla strada di un simile futuro ci sono almeno due grandi ostacoli. Il primo è connesso alla natura dell’attività bancaria: al di là delle spese fisse dell’informatica, tale attività prevede anche la conoscenza minuta della clientela, specie al momento della concessione di credito, il che può essere collegato più facilmente a dimensioni medie o medio-piccole. Alcuni casi recenti, come quelli di Parmalat e Cirio, mostrano chiaramente che grandi banche possono sbagliare grandemente; le piccole banche, dal canto loro, se la cavano spesso con minore informatica (grazie all’acquisto di servizi da banche più grandi) e minori sofferenze.

Il secondo ostacolo è di natura politica: non bisogna soccombere all’illusione che, in un mercato globale, le istituzioni nazionali non contino più o rimangano indifferenti alle grandi trasformazioni economiche che li riguardano.

Cacciatori e prede. La Banca d’Italia ha individuato nell’«italianità» delle banche uno degli elementi di identità del sistema economico italiano e fa quanto è in suo potere per conservarla; la stessa cosa, in maniera più o meno evidente, fanno tutti gli altri Paesi (i sistemi bancari francese e tedesco sono largamente chiusi agli investimenti esteri), mentre tutti sono contenti se le «loro» banche si espandono all’estero.

E non pensiamo che la privatizzazione e la comparsa sul mercato globale delle banche cinesi possano lasciare inalterato il mondo finanziario: comporterà probabilmente l’ascesa di Shanghai che si affiancherà a Hong Kong come centro finanziario di portata mondiale, così come occorre prepararsi all’ascesa dell’indiana Bombay e della brasiliana San Paolo.

Di fronte a queste prospettive, è facile provare un leggero senso di vertigine. Dobbiamo abituarci a considerare non solo che l’Europa non è più il centro del mondo finanziario; ma forse non lo è quasi più nemmeno l’America. Parafrasando un vecchio proverbio africano, è difficile dire quale banca sarà una «preda» e quale sarà una «cacciatrice»; tutte, però, dovranno mettersi a correre.