Milano – Per la prima volta dal 2009, ovvero da quando il mercato toro è tornato su Wall Street, l’azionario americano si “restringe” e diventa più piccolo. Questo, dopo la decisione di diverse società di tagliare le loro azioni, portandole al livello minimo dal 2006 e, anche, in un momento in cui le operazioni di buyback viaggiano al ritmo più veloce in quattro anni.
Colossi come Amgen, Hewlett Packard e altri 1.971 gruppi americani hanno riacquistato 397 miliardi di dollari di titoli lo scorso anno, emettendo nuove azioni per $169 miliardi, stando ai dati riportati da Birinyi Associates e resi noti da un articolo di Bloomberg. La combinazione di questi due fattori ha ridotto l’indicatore che misura le azioni che costituiscono il flottante quotate sullo S&P 500 dello 0,6%, nel corso dell’ultimo trimestre. Si tratta del primo calo dal marzo del 2009.
E se Wall Street si riduce, non se la passa meglio la City di Londra. I corvi non sono ancora volati via da Tower of London come narra la leggenda, secondo cui tale fenomeno si verificherà il giorno in cui Londra sprofonderà, ma questo non cambia di una virgola quello che sta già succedendo in questi mesi.
La capitale britannica sta perdendo il suo scettro. Nello Square Mile, angolo dorato dei bankers di mezzo mondo, non batte più il cuore del centro finanziario più importante del globo in termini di trading di valute e di derivati sui tassi di interesse. Dopo aver licenziato migliaia di dipendenti, il mondo del credito Oltremanica è ancora in tempesta.
La crisi sovrana non demorde e ha portato con essa un drastico calo delle attività di trading in Gran Bretagna. E l’attuale situazione – sussurrano gli addetti ai lavori dietro le quinte – potrebbe non essere affatto l’atto finale. Non esita a riconoscerlo Michael Kirkwood, 64 anni, con una carriera alle spalle alla guida della divisione inglese di Citigroup dal 1965.
“Andremo a finire che la nostra diventerà un’industria sempre più piccola. L’intero settore finanziario era diventato troppo imponente nel periodo precedente alla grande crisi finanziaria. La stessa Londra, che ha gravitato per troppo tempo in quell’orbita”, adesso dovrà pagare il prezzo più salato.
“La maggior parte delle operazioni di trading e delle sale operative di Europa, Medio Oriente e Africa sono ancora qui”, segnala Philip Keevil, ex capo della banca d’investimento SG Warburg & Co. e ora partner della società di consulenza Advisers. “Nella stessa misura in cui le banche internazionali dovranno fare tagli in giro per il mondo a causa di Basilea III e di altri regolamenti, saranno effettuati tagli anche qui a Londra”.
Royal Bank of Scotland ha annunciato la scorsa settimana che eliminerà 3.500 posti di lavoro; Ubs ridurrà la sua forza lavoro di 2mila unità. Anche Barclays, Lloyds, Hsbc hanno dovuto rimodulare gli organici e la strategia.
Secondo le stime di Bloomberg il settore dei servizi finanziari sotto il Big Ben ha licenziato lo scorso anno già 58mila persone, più del 45% dei tagli annunciati da tutte le banche dell’Europa Occidentale.
Si spinge oltre uno studio condotto dal Centre for Economics & Business Research, che ha previsto che nei prossimi due anni l’occupazione per i banchieri di Londra sarà inferiore ai livelli raggiunti nel 1998.
Ma in fondo al tunnel c’è sempre un barlume di speranza. Come conclude Mark Yeandle, direttore associato di Z/Yen, secondo cui Londra “potrà anche non essere più il centro finanziario numero uno, ma resterà sicuramente al top a livello mondiale”.