Società

WALL STREET:
E’ UN MERCATO
IN AFFANNO

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*Michele Pezzinga e’ lo strategist di CentroSim. I suoi commenti non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

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(WSI) – Wall Street è in affanno. Nonostante i buoni risultati relativi all’ultimo
trimestre del 2004, a parte qualche isolata eccezione (Lucent, in primis), i
segnali di cautela lanciati per il 2005 hanno suggerito alleggerimenti di
posizioni, in particolare nell’area high tech: tipico il caso di Motorola,
che ha indicato, assieme a ottimi numeri per fine 2004, anche utili per il
1° trimestre 2005 nella forchetta inferiore del range degli analisti, un
segnale che ha innescato l’altro ieri brusche vendite sul titolo, facendolo
precipitare del 7,5%.

Che la tecnologia non sia più la bussola dei mercati
non è una novità; rimane comunque uno dei comparti ciclici per eccellenza,
che dovrebbe riflettere anche lo stato di salute dell’economia; il fatto che
sia al palo oramai da tempo (da un anno a questa parte il Nasdaq ha ceduto un
4%, contro il +7% dell’indice del New York Stock Exchange) rifletterà pure
una pausa dopo la concitata corsa precedente, ma anche uno scenario in cui
per molti suoi comparti, in particolare quello semiconduttori, le
prospettive di crescita per il 2005 sono molto più fiacche che non l’anno
scorso.

Il rallentamento della crescita avrà riflessi anche sull’Europa, ed
è proprio qui che spicca l’anomalia italiana: passi l’effetto utilities, ma
in questi giorni da noi si stanno muovendo anche banche, beni di consumo e
media, tutti comparti che avrebbero bisogno di aumenti dei tassi o di una
robusta crescita economica per vedere giustificato il loro rinnovato appeal.
Tutte ipotesi, sui tassi e la crescita, che al momento non sembrano invece
intravedersi affatto, almeno per il 2005. Vista la relativa euforia di
Piazza Affari, anche ieri quasi incurante del calo di Wall Street, ribadiamo
quindi l’invito alla cautela e un più netto posizionamento del portafoglio
sulle realtà più difensive, dove l’effetto liquidità / rendimenti
obbligazionari meglio potrà farsi ancora sentire. Con il bund decennale a
nuovi massimi storici, e il relativo rendimento ormai ad un passo da quota
3,50%, l’appeal dei dividend yield dovrebbe mantenersi più stabile dei
temporanei tentativi di rotazione, tipici di inizio anno, sui titoli/settori
“rimasti indietro”.

Lo scenario globale, su tassi e cambi, ci sembra comunque, forse per nostra
incapacità, ancora confuso. Il dollaro ha interrotto la sua discesa,
galvanizzato anche dai dati incoraggianti, e per certi versi sorprendenti,
circa gli afflussi valutari di novembre, con oltre 81 mld di dollari in
entrata che hanno superato largamente i deflussi legati al disavanzo della
bilancia commerciale, in quel mese pari a 60,3 mld di dollari. Se il
deprezzamento del cambio non dovesse proseguire, dopo non aver fin qui
apportato gli auspicati miglioramenti nei conti con l’estero degli USA,
l’unico modo per correggere gli squilibri è frenare la crescita della
domanda interna, e dei consumi in particolare, tramite aumenti dei tassi.

In
questo senso, è probabile che la FED continui a muoversi al rialzo anche nei
due prossimi incontri di politica monetaria, pur non arrivando a segnalare
nè cambiamenti di ritmo, nè particolari rischi inflazione (anche i prezzi al
consumo di dicembre resi noti ieri non hanno evidenziato sorprese,
nonostante l’indice “core”, al netto di alimentari ed energia, con il +0,2%
del mese, si sia portato sui massimi annui a quota +2,2%). Peccato però che
per stroncare questi eccessi di domanda interna si rischi di far frenare più
del previsto, nella seconda metà dell’anno, l’economia: ed è questo forse il
motivo dello stentato andamento di Wall Street e di una curva dei rendimenti
che diventa sempre più piatta anche sui Treasuries, nonostante attese di
ulteriori aumenti dei tassi. L’obiettivo delicato della FED appare quello di
tenere sotto controllo l’espansione dei consumi evitando al tempo stesso un
brusco sgonfiamento di valore per le attività in mano alle famiglie;
un’eventualità che metterebbe a rischio la stabilità del sistema. Ciò che
sta sostenendo la ripresa americana è infatti un colossale “effetto leva”.

Come nel caso delle società, in cui grazie ad uno scenario di discreta
crescita degli utili e ad un contenuto costo del denaro, l’utilizzo del
debito migliora i conti aziendali, e ancor più fa lievitare il loro
apprezzamento borsistico, così anche nel caso delle economie il ricorso al
debito da parte delle famiglie aiuta a mantenere un profilo di consumi
crescente, anche al di sopra di quanto il reddito disponibile corrente
giustificherebbe. In effetti, a garantire il crescente debito delle famiglie
USA ci sono attività finanziarie e reali (immobili) il cui valore continua a
lievitare: stiamo parlando di oltre 55 trl di dollari, di cui 30 di azioni e
obbligazioni e oltre 20 di immobili, un controvalore quasi raddoppiato negli
ultimi dieci, in proporzioni analoghe grazie a ciascuna delle due principali
classi di attività.

Anche il debito delle famiglie ha seguito un profilo
analogo, passando da meno di 5 trl di dollari a 10 circa. In questo senso,
il livello raggiunto dal debito potrebbe apparire di per sè allarmante, in
termini di confronti storici, ma non lo è se rapportato al cresciuto valore
delle attività, al punto che un ipotetico valore dell’attivo netto delle
famiglie ad oggi apparirebbe quasi raddoppiato, rispetto a dieci anni fa,
fino a superare i 46 trl di dollari, quasi 5,4 volte il reddito disponibile
delle famiglie. Il problema che tuttavia si pone, come in tutti i casi di
utilizzo della leva finanziaria, è che un possibile shock sulle attività a
garanzia del debito, o da cui deriva un effetto ricchezza, potrebbe avere
effetti drammatici sui flussi di spesa delle famiglie, dunque anche sulla
stabilità del sistema. Il caso del Giappone fine anni ’90 è esemplare, anche
se lì fortunatamente il debito delle famiglie non raggiunse livelli
significativi; altrimenti il crollo delle attività, immobiliari e di Borsa,
avrebbe avuto effetti ben peggiori.

L’effetto leva però si sta facendo
sentire ancora in Giappone nel settore pubblico: a fine 2004 il debito ha
infatti toccato il livello astronomico del 169% del PIL, contro il 65% circa
segnato negli USA, in Francia e Germania e il 106% in Italia. Un livello
simile di debito rappresenta sicuramente un problema, ed è per questo che il
Governo giapponese ha messo in cantiere misure di drenaggio fiscale per
oltre 52 mld di dollari nei prossimi tre anni, finalizzate al suo
riequilibrio. Negli USA il problema, più che il disavanzo federale, che a
sorpresa sembrerebbe scendere più del previsto (dal 4,5% del PIL sfiorato ad
inizio del 2004 a meno del 3% cui si sta viaggiando negli ultimi tre mesi
del 2004), è invece quello del debito privato, salito fino al livello record
dell’86% del reddito disponibile, pur incidendovi, in termini di costo,
“solo” per meno del 30%.

Il dibattito europeo sullo sforamento dei vincoli
al disavanzo pubblico entra in quest’ambito: rilanciare la ripresa con un
po’ di leva finanziaria, in questo caso in mano allo Stato, anzichè ai
privati. Peccato che, come nel caso delle società, il livello del debito e
la capacità di rimborso non siano dettagli: chi parte da un debito superiore
al 100% del PIL non è nella stessa situazione di chi è fermo al 65%. Nel
tentativo di giungere a qualche risultato comune forse non si terrà conto di
questo piccolo vincolo e si formulerà qualche proposta “indecente”: in ogni
caso l’uso della leva potrebbe fornire anche in Europa Continentale un po’
di “effetto droga” sull’economia, sperando che l’espansione del debito e dei
disavanzi alla fine non serva ad alimentare ancor più solo la crescita
dell’immobiliare e dei valori azionari, anzichè quella dell’economia reale.

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