Società

Vince causa da $23 miliardi, mette in ginocchio industria del tabacco

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news

NEW YORK (WSI) – «Quando hanno letto il verdetto, ho sentito la parola milioni, ed ero eccitata. Poi il mio avvocato mi ha informata che in realtà era una B di billion, miliardi, e allora ho pensato che fosse incredibile».

Così ha parlato Cynthia Robinson, la vedova di Pensacola che aveva fatto causa al secondo produttore di sigarette negli Stati Uniti, la Reynolds, dopo aver saputo che il tribunale ha condannato la compagnia a pagare 23,6 miliardi di dollari di multa per la morte di suo marito, ucciso nel 1996 dal cancro ai polmoni. Una sentenza storica, che sembra presa di peso da un romanzo di John Grisham, e potrebbe mettere in ginocchio l’intero settore del tabacco, se non verrà rovesciata in appello.

Il marito di Cynthia, Michael Johnson, aveva cominciato a fumare quando aveva 13 anni. Lavorava per un albergo, dove guidava lo shuttle dei clienti, e fumava tre pacchetti al giorno di «Kool». Spesso accendeva la prossima sigaretta con la cicca di quella appena finita. Nel 1990 aveva sposato Cynthia e avevano avuto due figli. Sei anni dopo, a soli 36 anni d’età, era morto per un cancro ai polmoni.

Il suo caso era finito nell’azione collettiva intitolata al pediatra di Miami Beach Howard Engle, che aveva fatto causa ai produttori di tabacco a nome di un grande numero di vittime, sostenendo che tutte si erano ammalate perché le sigarette creavano dipendenza ed erano dannose, ma le aziende che le vendevano avevano nascosto i loro effetti.

Nel 2000 un giudice gli aveva dato ragione, condannando le case a pagare 145 miliardi di multa: una punizione per il loro comportamento irresponsabile, a cui poi si aggiungevano le compensazioni per i danni subiti dalle singole persone. La Corte Suprema della Florida in seguito aveva annullato questo verdetto, perché i casi rappresentati erano troppo diversi tra loro. Però aveva ammesso che le singole vittime ripresentassero le loro cause. Così erano nati migliaia di «Engle progeny», ossia procedimenti giudiziari avviati dai singoli membri della precedente class action.

Quello di Cynthia faceva parte di questo gruppo, e dopo quattro settimane di processo e due giorni di deliberazioni, venerdì scorso la giuria ha emesso il suo verdetto. La Reynolds, produttrice delle sigarette Kool fumate da Michael, è stata condannata a pagare 17 milioni di dollari di danni alla famiglia, e 23,6 miliardi come multa punitiva.

Cynthia si è commossa, ma gli avvocati della compagnia hanno subito detto che la sentenza è «eccessiva, inaccettabile in base alla legge statale e costituzionale, fuori dalla ragionevolezza e la giustizia, e incoerente con le prove presentate». Seguirà quindi l’appello, che già nel caso della class action era riuscito ad annullare la decisione dei giudici, e in altre situazioni simili aveva ridotto di molto la multa.

Il caso sembra preso dal romanzo di John Grishman «The Runaway Jury» (La giuria), che raccontava una storia molto simile, anticipando poi quello che sarebbe accaduto nella realtà. Anche là si descriveva un processo intentato dopo la morte di un fumatore per cancro ai polmoni, e i tentativi delle aziende produttrici di influenzare le decisioni della giuria.

La sentenza della Florida è un duro colpo per la già danneggiata industria del tabacco, che per anni ha nascosto i risultati delle ricerche in cui era documentata la pericolosità delle sigarette e la loro capacità di provocare dipendenza. È vero infatti che la class action è stata annullata dalla Corte Suprema locale, ma le singole vittime ora possono fare causa, basandosi solo sull’evidenza che fumavano e hanno subito gravi danni alla salute. Questo apre la porta a migliaia di procedimenti legali, che alla fine potrebbero costare in totale più dei 145 miliardi della sentenza originaria per il caso di Howard Engle.

Il contenuto di questo articolo, pubblicato da La Stampa – che ringraziamo – esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

Copyright © La Stampa. All rights reserved