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USA: UNA CRESCITA COL PUNTO INTERROGATIVO

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L’economia statunitense è cresciuta allo strabiliante ritmo del 7,2% nel terzo trimestre di quest’anno. Questo dato, nettamente superiore alle più rosee aspettative, suffraga le previsioni di istituti di ricerca, analisti finanziari ed economisti che danno ormai per certo che l’attuale ripresa dell’economia statunitense sfocerà in una crescita solida e duratura, talmente forte da riuscire a rilanciare anche la boccheggiante economia europea.

È quindi legittimo domandarsi se effettivamente l’attuale forte espansione dell’economia americana segni la fine della crisi prodotta dallo scoppio della grande bolla speculativa formatasi nei mercati finanziari negli anni Novanta oppure se gli squilibri dell’economia americana e di quella mondiale siano destinati a frenare la crescita e a rimettere in discussione l’ottimismo oggi prevalente.

Non vi è alcun dubbio che l’attuale ripresa è il frutto di una politica economica tesa a rilanciare l’economia ad ogni costo e che la forte crescita del secondo e del terzo trimestre sono in gran parte da addebitare al taglio delle tasse attuato dall’amministrazione Bush e più in particolare ai rimborsi fiscali incassati in questo periodo dalle famiglie americane.

Quindi, questo rimbalzo della crescita economica conferma la «potenza» degli impulsi della politica fiscale, che ultimamente erano stati messi in dubbio da molti economisti, ma non fornisce ancora la certezza che sia stato messo in moto un meccanismo economico in grado di sostenere nel tempo la crescita americana. Per essere più chiari, resta aperto il dilemma se oggi l’economia statunitense è assimilabile ad una economia «drogata» da potenti dosi di anfetamine, che quindi è destinata ad afflosciarsi non appena se ne esauriranno gli effetti, oppure se questa cura da cavallo ha messo in moto un processo virtuoso in grado di sostenersi nel tempo.

La risposta di martedì scorso della banca centrale statunitense non è rassicurante. Se si eccettua il giudizio di un mercato del lavoro che tende a stabilizzarsi e non più ad indebolirsi, la Federal Reserve ha chiaramente dichiarato che il «paziente USA» è ancora bisognoso di attente e forti cure, per cui non ha alcuna intenzione di muovere i tassi di interesse per un «considerevole periodo di tempo».

La Fed ha addirittura sorprendentemente ribadito che i pericoli di una caduta del livello dei prezzi, ossia di deflazione, restano ancora superiori a quelli di un loro aumento. Il giudizio di Alan Greenspan è stato interpretato come un ennesimo tentativo di influenzare l’evoluzione dei tassi a lungo termine che negli ultimi tempi si erano mossi al rialzo.

È innegabile che questo sia uno degli obiettivi della Fed, ma è altrettanto innegabile che la banca centrale americana vuole che il costo del denaro rimanga molto basso, poiché teme che l’economia americana non sia oggi in grado di sopportare un aumento dei tassi di interesse, che li riporterebbe unicamente a un livello normale in una fase di forte ripresa economica. E le preoccupazioni di Greenspan appaiono giustificate.

Un rialzo del costo del denaro potrebbe, da un canto, frenare la voglia di spendere delle famiglie americane, che sono in misura crescente fortemente indebitate, e potrebbe allungare ulteriormente il processo di risanamento dei bilanci di imprese, appesantite dalla permanenza di forti sovraccapacità produttive e in molti casi da alti livelli di indebitamento, e, quindi, di rinviare ulteriormente quegli investimenti aziendali che dopo anni di forte caduta hanno ripreso a salire solo ultimamente.

Ma c’è di più, la ripresa americana comporta inevitabilmente un aumento delle importazioni e quindi, un peggioramento del disavanzo commerciale statunitense. Questo disavanzo non è destinato ad essere alterato sostanzialmente dallo shopping di beni americani che attueranno nelle prossime settimane le aziende cinesi con lo scopo di allentare le tendenze protezionistiche statunitensi o da legislazioni, lesive degli accordi del WTO, come il «Buy America», che impone al Pentagono di comprare solo prodotti americani senza componenti provenienti dall’estero.

Tutto lascia intendere che vi è una ferma volontà politica di arrivare a tutti i costi all’appuntamento delle elezioni presidenziali dell’anno prossimo con una economia in crescita e, quindi, di utilizzare tutti i «cerotti» possibili per rinviare l’emergere di situazioni di crisi dovute agli squilibri interni ed esterni dell’economia statunitense.

Tra questi «cerotti» figurano anche la formazione di una nuova bolla speculativa nei mercati finanziari, che già oggi appaiono sopravvalutati, e l’uso della leva del tasso di cambio del dollaro. Vi è più di un motivo per dubitare del successo a medio termine di questa «scommessa».. Infatti qualsiasi evento non previsto può mettere all’improvviso in forse la volontà del resto del mondo di finanziare un paese che vanta un debito estero netto pari al 29% del suo Pil e un disavanzo della bilancia delle partite correnti superiore al 5%.

Per questi motivi, un aggiustamento è inevitabile e quindi l’unico interrogativo è quando e come si manifesterà. Quindi, il tasso di crescita registrato dall’economia statunitense nel terzo trimestre di quest’anno, che comunque sarà rivisto al ribasso, non fornisce alcuna certezza sulla sostenibilità nel tempo della crescita statunitense, poiché essa è alimentata sostanzialmente dal consumo di reddito futuro e di reddito straniero, come confermano la forte crescita del debito interno e di quello commerciale.

Tutto ciò dà maggior forza all’ipotesi che in realtà stiamo assistendo ad una riedizione dell’economia della bolla degli anni Novanta, in cui gli Stati Uniti sono disposti a creare nuove bolle per attutire gli effetti dello scoppio di quelle precedenti. In questo modo si guadagna solo tempo al prezzo però di un più pesante appuntamento con la realtà.

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