Economia

Delusione per rapporto lavoro Usa, dollaro ripiega

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Gli Stati Uniti hanno creato 156 mila posti di lavoro in agosto nel settore non agricolo, meno del previsto, con il tasso di disoccupazione che si è attestato al 4,4%, in crescita dal 4,3% di luglio. Riviste al ribasso le cifre di luglio, con il governo che ha comunicato che sono stati aggiunti 189 mila posti e non 209 mila come precedentemente reso noto. Anche i dati di giugno sono stati ritoccati al ribasso a +210 mila da +231 mila posti di lavoro.

Gli economisti interpellati da MarketWatch si aspettavano una variazione positiva di 170mila posti di lavoro il mese scorso. I salari continuano a restare congelati, registrando un aumento minimo di 3 centesimi a una media di 26,39 dollari l’ora. La paga oraria è aumentata invece del 2,5% su base annuale, una percentuale invariata rispetto al mese precedente e sotto le attese che erano per un risultato di +2,6%. Le ore lavorative settimanali sono calate di 0,1 ore a 34,4 ore.

Gli economisti della Federal Reserve e non solo fanno fatica a capire il motivo per cui la crescita dei salari rimane molto lenta anche quando l’economia prima al mondo si avvicina alla piena occupazione e persino con un’attività economica che si è espansa del 3% nel secondo trimestre (vedi dati Pil), percentuale che è anche l’obiettivo dell’amministrazione Trump sebbene venga giudicata insostenibile alla lunga dalla maggior parte degli analisti, gli stipendi non salgono.

Le ragioni possono essere ricercate nelle difficoltà incontrate dal mercato del lavoro Usa a recuperare lo smalto pre recessione, secondo Elise Gould, senior economist dell’Economic Policy Institute. La sua tesi è corroborata dagli ultimi dati sul tasso di partecipazione alla forza lavoro (vedi grafico in fondo), che è rimasto invariato al 62.9%, vicino ai minimi dagli Anni 70. Il numero di cittadini americani non facenti parte della forza lavoro è aumentato di 128 mila unità a quota 94,785 milioni.

Ma per Ian Shepherdson, chief economist di Pantheon Macroeconomics, l’immobilismo dei salari è dovuto in parte anche alla performance dell’inflazione. Nella sua ultima riunione di politica monetaria la banca centrale ha riconosciuto la possibilità che per conoscere il vero stato di salute dell’America convenga analizzare altri indicatori sul mercato del lavoro.

Oltre al trend dei prezzi al consumo per la Fed potrebbe c’entrare l’andamento (più fiacco) del tasso di disoccupazione naturale, concetto un concetto sviluppato soprattutto dagli economisti Milton Friedman e Edmund Phelps negli Anni 60. Si tratta della percentuale che si ottiene se si livella il dato alla produzione aggregata potenziale.

Lavoro: salari non crescono nemmeno con +3% del Pil

Lo stesso presidente Usa ha fatto notare che i salari “non salgono da un bel po’ di tempo” ormai. Gary Burtless, economista di Brookings Institution, ha spiegato a Polifact, un’organizzazione di fact-checking gestita dal quotidiano Tampa Bay Times, che “i salari reali stanno crescendo ma più lentamente di quanto spererebbero tutti, fatta eccezione forse per i datori di lavoro”.

Tutti questi dati rafforzano l’idea che il processo di normalizzazione dei tassi della Federal Reserve sarà graduale.

John Briggs, head of strategy at NatWest Markets, ha dichiarato alla CNBC che “con i salari che anche stavolta non hanno mostrato alcun segnale di crescita, per i mercati sarà difficile continuare a scontare un nuovo rialzo dei tassi di interesse da parte della Fed quest’anno”.

Sui mercati, i future sugli indici azionari americani sono scesi dai massimi di seduta, con i contratti sui principali listini della Borsa Usa che scambiano in progresso di circa lo 0,2% quando manca meno di un’ora all’avvio delle contrattazioni. Sul Forex il dollaro Usa paga dazio e il dollar index cede mezzo punto percentuale. L’euro si rafforza dello 0,2% circa in area $1,1930, mentre la sterlina britannica sale dello 0,4% a $1,2986, ai massimi di tre settimane.

I tassi sui Treasuries Usa decennali sono in calo di due punti base, invertendo la tendenza e attestandosi al 2,13%. Si registra inoltre un appiattimento della curva dei rendimenti obbligazionari negli Stati Uniti. Tra le materie prime, l’oro – bene rifugio per eccellenza – invece riduce le perdite e ora cede lo 0,15%.