Società

Unica soluzione, la ristrutturazione del debito

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ROMA (WSI) – Senza una radicale ristrutturazione del debito ben piu’ radicale di quella attraverso cui, senza dirlo chiaramente, e’ gia’ passata la Grecia e possibilmente adottata congiutamente da tutti i paesi non piu’ in grado di fare fronte al loro debito crescente, non c’e’ che il tracollo.

E’ l’opinione espressa dall’economista e scrittore Guido Viale in un editoriale pubblicato sull’edizione cartacea de Il Manifesto di oggi.

La sola strada che l’Italia puo’ percorrere per scongiurare il default e’ la ristrutturazione. Spese militari, pensioni d’oro, grandi opere, evasione fiscale: anche rivedendo queste voci in bilancio, lo spettro Grecia incombe. Colpa degli 80-90 miliardi di interessi sul debito, piu’ i 45-50 miliardi per riportarlo al 60% del Pil.

Ridurre in misura sostanziale il debito svendendo il patrimonio pubblico, sostiene il giornalista economico, e’ invece addirittura piu’ un imbroglio che un’illusione. Le svendite della quota pubblica di Eni, Enel, FS, Finmeccanica e Fincantieri oggi frutterebbero ben poco piu’ di 100 miliardi, meno di quanto continueremmo a pagare ogni anno tra interessi e quota di restituzione.

Avrebbe le sue problematiche anche un’eventuale uscita dall’euro, che probabilmente si verifichera’ in ogni modo, “come conseguenza dello sfascio di tutto l’edificio dell’Ue a cui ci sta portando la sua governance” discutibile.

E’ un gatto che si morde la coda. L’unica speranza – seppur ridotta – e’ che la musica cambi dopo le elezioni tedesche, ma stando ai sondaggi e alle dichiarazioni della Cancelliera Angela Merkel non c’e’ da illudersi.

Ristrutturare il debito, poi, non basta. Gia’ di per se si tratta di un’operazione complessa, che prevede la modifica delle condizioni originarie di un prestito (tassi, scadenze, divisa, periodo di garanzia) per alleggerire l’onere del debitore, in questo caso lo stato italiano.

“Senza una radicale ricvonversione del tessuto economico per dare nuovi sblocchi alle imprese che hanno perso il loro mercato interno o esterno” non c’e’ alcuna possibilita’ di salvare l’apparato produttivo italiano e l’occupazione.

“Meno che mai creare i milioni e milioni di nuovi posti di lavoro necessari a restituire a tutti un presente e un futuro decenti”.

“Una ricon­ver­sione del genere non può essere fatta che met­tendo al cen­tro l’obiet­tivo della soste­ni­bi­lità: sia per spo­starsi sulle pro­du­zioni che hanno un futuro, anche di mer­cato; sia per pre­ve­nire i costi sem­pre più pesanti, e desti­nati a cre­scere, pro­vo­cati dai cam­bia­menti cli­ma­tici. Tutto ciò richiede pro­du­zioni e con­sumi eco­lo­gici e pro­cessi che esi­gono decen­tra­mento e ridimensio­na­mento degli impianti, la loro dif­fe­ren­zia­zione in base alle caratteristiche del ter­ri­to­rio, la par­te­ci­pa­zione ai pro­cessi deci­sio­nali di mae­stranze, cit­ta­di­nanza attiva e governi locali e, soprat­tutto, riter­ri­to­ria­liz­za­zione (cioè rilo­ca­liz­za­zioni): attra­verso accordi diretti tra pro­dut­tori e con­su­ma­tori o uti­liz­za­tori che non annul­lano certo le fun­zioni del mer­cato, ma che le rego­lano e lo sot­trag­gono, senza cadere nel pro­te­zio­ni­smo, a quella competitività sel­vag­gia e glo­ba­liz­zata che è solo una corsa verso il sem­pre peg­gio.

In que­sto pro­cesso un ruolo cru­ciale pos­sono e devono gio­carlo i ser­vizi pubblici locali ricon­qui­stati al con­trollo dei poteri pub­blici e, attraverso di loro, di una cit­ta­di­nanza capace di imporre nuove forme di demo­cra­zia partecipata. E’ l’unica strada per sot­trarsi al dogma del “non c’è alter­na­tiva” e andrebbe sot­to­po­sta a una a un con­fronto pub­blico tra tutte le forze che si riten­gono “alter­na­tive”; ma soprat­tutto tra quelle miriadi di orga­niz­za­zioni che ope­rano, spesso in silen­zio, per costruire un modo di vivere e con­vi­vere diverso, a volte senza nem­meno rea­liz­zare di essere la parte attiva di quel 99 per cento della popo­la­zione ves­sata dal capi­tale finan­zia­rio.

Un con­fronto del genere andrebbe esteso anche a livello euro­peo (con un occhio alle pros­sime ele­zioni) per rica­varne un pro­gramma gene­rale, di respiro inter­na­zio­nale nel suo impianto, ma arti­co­lato e sor­retto da una mol­te­pli­cità di pro­po­ste, di riven­di­ca­zioni, di buone pra­ti­che e di casi di suc­cesso a livello locale.

Per chi si pone in que­sta pro­spet­tiva governo signi­fica innan­zi­tutto autogoverno e le cose da fare non sono la “sin­tesi” — come spesso si dice e si cerca di fare — tra le mille istanze dif­fe­renti che agi­tano il movimento; occorre invece aiu­tare que­ste stesse forze a fare loro stesse que­sta sintesi: a rico­no­scere nel pro­prio agire l’embrione inso­sti­tui­bile e irrinunciabile di un pro­gramma di governo alter­na­tivo. In tutti i luo­ghi dove già sono all’opera, que­ste forze sono le sedi poten­ziali di un’aggre­ga­zione di istanze con­si­mili, di un con­fronto tra riven­di­ca­zioni diverse ma con­ver­genti, di una volontà di coin­vol­gere nei pro­pri pro­getti il governo del ter­ri­to­rio.

La rifor­mu­la­zione di un pro­gramma e l’aggre­ga­zione intorno a esso delle forze dispo­ni­bili è la con­di­zione per legit­ti­mare il rigetto dei patti di stabilità e per soste­nere le ragioni di que­sta pro­spet­tiva a livello euro­peo. Su que­sta stessa strada si costrui­scono anche le pre­messe per fare fronte alle ritor­sioni che imman­ca­bil­mente segui­reb­bero alla scelta di ristrut­tu­rare i debiti; ma anche alle con­se­guenze di un’even­tuale dis­so­lu­zione dell’euro causato dall’impasse poli­tica in cui sta pre­ci­pi­tando la gover­nance euro­pea; e, ancor più, per pre­ve­nire il pro­gres­sivo dete­rio­ra­mento delle con­di­zioni di vita della stra­grande mag­gio­ranza della popo­la­zione, se le cose con­ti­nueranno a pro­ce­dere nella dire­zione in cui le spinge il governo delle lar­ghe intese.”