(WSI)- Sebbene sia dovuto a fattori stagionali, l’aumento della disoccupazione registrato in agosto conferma che il miglioramento della situazione sul mercato del lavoro è molto lento soprattutto rispetto a quello registratosi in precedenti fasi di ripresa congiunturale.
Infatti, la disoccupazione, che aveva raggiunto il suo massimo nell’ottobre dell’anno scorso, si è ridotta solo di circa un migliaio di unità. Se è vero che avviata una ripresa solo con un certo ritardo si cominciano a creare nuovi posti di lavoro, è pure incontestabile che questa ripresa congiunturale è scarsamente «prolifica» di nuovi impieghi.(…)
(…) Il cambiamento è giudicato negli Stati Uniti a tal punto significativo che è diventato uno dei temi centrali della campagna delle elezioni presidenziali. Il dato economicamente significativo non è tanto il fatto che dall’insediamento di Bush alla Casa Bianca mancano all’appello circa 900mila posti di lavoro, ma che, come ha calcolato l’economista Steven Roach, la ripresa, iniziata circa tre anni fa, ha creato circa 7 milioni di posti di lavoro meno delle altre fasi di espansione economica.
La scarsa prolificità di questa fase congiunturale non viene più ritenuto un fenomeno temporaneo, ma il frutto di profondi cambiamenti nel modo di funzionare dell’economia che si ripercuotono sul mercato del lavoro. Tra questi spiccano l’apertura dei mercati, la delocalizzazione della produzione nei paesi a bassi salari (nel quadro della globalizzazione) e l’aumento della produttività.
La polemica politica sviluppatasi attorno al fenomeno dell’offshoring, ossia al trasferimento di attività del settore terziario soprattutto in India, ha spinto i ricercatori a chinarsi su questo fenomeno e a concludere che circa il 15% dei posti di lavoro persi negli ultimi anni negli Stati Uniti sono stati trasferiti all’estero. Si tratta di una percentuale significativa, ma che sicuramente non spiega la scarsa prolificità di posti di lavoro di questa ripresa.
E infatti alcuni sostengono che questa cifra trae in inganno, poiché si basa unicamente sugli impieghi effettivamente trasferiti all’estero, ma non tiene in considerazione gli effetti dell’apertura dei mercati (che vuol dire disponibilità di merci e ora anche di servizi a prezzi inferiori) e delle possibilità di delocalizzazione sul comportamento degli attori economici e sul mercato del lavoro.
Sinteticamente essa può essere riassunta nell’imperativo di ridurre i costi e di risparmiare sul costo del lavoro per reggere la concorrenza estera che non è più unicamente degli altri paesi industrializzati, che hanno strutture dei costi simili, ma che ora è soprattutto dei paesi a bassi salari. Il risultato finale sembra essere quello di un gatto che si morde la coda.
La ripresa crea pochi nuovi posti di lavoro, quindi, la crescita dei redditi non è tale da sostenere un aumento dei consumi indispensabile per rafforzare la crescita che quindi appare debole e tentennante; e ciò spinge le società ad essere molto prudenti prima di assumere nuovi dipendenti.(…)
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