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UN NOBEL CHE PARLA ALL’ ITALIA

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(WSI) –
L’attribuzione
del Nobel dell’Economia a Edmund Phelps
parla direttamente al nostro paese. Non tanto per le
fondamentali acquisizioni del suo primo ventennio di
attività di ricerca, in cui introdusse geniali considerazioni
di ordine microeconomico nella correlazione
tra prezzi praticati dalle imprese, saggi medi di salario,
e obiettivi d’inflazione praticati dalle banche centrali,
al fine di risolvere l’aporia della disoccupazione involontaria
che nella teoria keynesiana mostrava di permanere
pur in presenza di forte
sostegno alla domanda aggregata.

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Sul versante neokeynesiano, Phelps
costruiva in tal modo un corrispettivo
altrettanto apprezzabile di
quanto, sul versante monetarista,
Milton Friedman e altri elaboravano
studiando l’impatto diretto
della quantità di moneta sull’instabilità
del ciclo, mostrando cioè come
obiettivi monetari quantitativi
inflazionistici potessero sì apparentemente
dare una mano a ridurre
la durata di congiunture recessive, ma altresì
porre le basi per nuove e più pericolose,cooperando
all’aggiustamento nominale verso l’alto delle aspettative
da parte degli operatori.

Phelps parla al nostro
paese soprattutto per le straordinarie ricerche che ha
compiuto dagli anni Novanta in poi, sulle ragioni
comparate che hanno condotto alcuni paesi europei –
nell’Est ex sovietico ma anche nell’Ue come nel caso
dell’Irlanda – a crescere in maniera assai più rapida di
quanto invece non accadesse per Germania e Italia.
Tanto che per un decennio Phelps è stato co-organizzatore
del seminario annuale di Villa Mondragone
organizzato dalla facoltà di economia a Tor Vergata.

La sua lezione sulla necessità di abbracciare in maniera
radicale le “istituzioni” dell’economia di mercato,
a cominciare da una più bassa quota di intermediazione
pubblica del reddito e dalla certezza nel rispetto
dei contratti poiché l’impresa stessa «è» un fascio
di contratti prima che un modulo organizzativo,
farebbe assai bene ai politici italiani che credono invece
che politica industriale sia il ritorno a molti fondi
pubblici discrezionali, per scegliere da Roma quali
settori siano produttivi e quali no.

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