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(WSI) –
«La nostra salvezza è che dall’altra
parte non sono pronti, sennò erano guai».
A parlare, mentre Romano Prodi si destreggia
a fatica nella bagarre dell’aula
della Camera intervenendo sul caso Telecom,
è un fedelissimo del Professore.
Quelli «dell’altra parte» sono invece i
partiti dell’opposizione, compatti ieri
nel chiedere conto al presidente del
Consiglio delle presunte «bugie» sul caso
Rovati, molto meno davanti
all’ipotesi di proporsi subito
come alternativa elettorale e
politica a un governo in difficoltà.
A dar fiducia
al centrosinistra,
perlomeno
sulla navigazione
a medio
termine dell’esecutivo,
è
per ora soprattutto
questo:
il caos nelle file avversarie. Per il resto
il clima è teso, la fiducia nel futuro ai
minimi. E la giornata di ieri ha addensato
altra foschia su palazzo Chigi.
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Prodi è uscito da Montecitorio convinto
di non avere tratto alcun giovamento
dal dibattito parlamentare su Telecom,
che inizialmente aveva cercato di scongiurare.
In aula ha invece rivendicato di
aver cercato il confronto: «Il mio essere
qui – ha detto alla Camera – non è un dietrofront
». Ma la scena, irradiata in diretta
tv, in cui il Prof è stato ripetutamente interrotto
dagli schiamazzi provenienti dai
banchi della Cdl mentre cercava di negare
qualsiasi tentazione dirigista («Per me,
in particolare, sarebbe sconfessare parte
della mia storia professionale», frase interrotta
una decina di volte sul «per
me…») è stata il momento simbolicamente
più significativo del dibattito. Fausto
Bertinotti ha cercato inutilmente di placare
la contestazione.Francesco Rutelli si
è girato verso il presidente della Camera
invocando un intervento risolutore. Bertinotti
si è limitato a sospendere la seduta,
procurandosi le critiche di mezzo governo
e la perdurante ostilità di Prodi,
che lo considera colpevole di aver agevolato
l’approdo in Parlamento del caso.
Durante l’interruzione Silvio Sircana,
portavoce del Prof, ha tradito il suo humour
nero: «Ho deciso che la mia prossima
attività sarà una pizzeria su un’isola
greca», ha scherzato (forse) con un pugno
di cronisti. Quindi, visibilmente sconsolato,
ha espresso tutti i suoi dubbi sulla
efficacia del chiarimento in aula: «C’è un
punto in cui la curva della tenacia diventa
ostinazione.Forse abbiamo oltrepassato
il punto». Il dubbio che serpeggia nello
stesso entourage prodiano è che il Prof
sia uscito dal dibattito su Telecom non
con l’immagine di un leader determinato
a tenere il punto sulla questione, ma come
un incassatore che continua a ricevere
accuse senza trovare il modo di scrollarsele
di dosso definitivamente: «Si è
presentato uno scenario non diverso da
quello di Telekom Serbia. E finirà come
in quella situazione», ha cercato di tagliar
corto il premier. Ma sono i suoi stessi alleati
a non pensarla allo stesso modo.
Il travaglio sulla finanziaria, che ha
accompagnato in parallelo la giornata
parlamentare, ha fatto il resto. Alle 20 di
ieri, mentre il ministro Tommaso Padoa-
Schioppa era impegnato nel confronto
con le parti sociali, i vicepremier Massimo
D’Alema e Francesco Rutelli non
avevano ancora avuto modo di vedere il
testo definitivo della legge. E i mugugni
dei leader riformisti non si sono sopiti.
«Abbiamo cercato di fare il meglio, ma
ora bisogna correggere alcuni errori macroscopici
», è la linea dettata informalmente
ai suoi da D’Alema, secondo il
quale «è mancata una direzione politica
della manovra, il lavoro finale è frutto di
un’attività random». Giudizio pienamente
condiviso da Rutelli, che ha schierato
tutto il partito contro quella che al quartier
generale di largo del Nazareno viene
definita la «deriva fiscalista» della finanziaria.
L’accusa a Prodi, rinforzata dal
combinato disposto Telecom-finanziaria,
è quella già rimbalzata molte volte nel dibattito
politico degli ultimi anni: deficit di
leadership. Aggravata dalla «mancanza
di collegialità» nelle scelte fondamentali,
rimproverata a muso duro da Fassino al
Prof qualche giorno addietro e ribadita
ieri mattina dal segretario ds.
Non siamo al redde rationem. Ma
l’attribuzione di una insufficienza a Prodi
arriva dai suoi stessi luogotenenti a
palazzo Chigi e dai partiti che dovrebbero
seguirlo nell’avventura del Partito democratico.
«Così non dura», è la frase
che scappa di bocca a svariati ministri
nell’informalità dei colloqui in Transatlantico.
«Per fortuna nessuno è ancora
pronto a organizzare il dopo», è la consolazione
dei più ottimisti tra loro.
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