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(WSI) – Tutto torna all’interno di quel «misterioso enigma» (la definizione è di Winston Churchill) che rimane Santa Madre Russia. Tutto torna perché la Russia cambia titolari (zar di tutte le Russie, segretario generale del PCUS, presidente della Federazione russa), ma non la sua impronta che la sospinge periodicamente sul doppio binario dell’autocrazia e della centralizzazione.
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Non ne è certo indenne Vladimir Vladimirovich Putin, ex-agente del KGB e oggi presidente russo, la cui involuzione è stata, tra gli altri, apertamente denunciata da Andrej Illarionov, il consigliere economico del Cremlino dimessosi (o fatto dimettere) due giorni fa dal suo incarico. Illarionov ha stigmatizzato «il cambiamento del modello economico realizzato dal Cremlino, il cambiamento del regime politico e la nascita nel Paese di un sistema di corporativismo di Stato». Parole dure, che certo in epoca sovietica non avrebbero potuto essere così pubblicamente pronunciate, ma che riflettono una precisa situazione di fatto.
Da circa un anno il Cremlino è infatti impegnato a consolidare la sua presenza nell’economia con un processo di graduale ristatalizzazione. Ne è stato un esempio, in campo energetico, lo smembramento del colosso petrolifero Yukos a tutto vantaggio della controllata Rosneft. Poi lo Stato ha rafforzato la sua presa sul gigante del gas Gazprom e ha assorbito la Sibneft di Roman Abramovic. C’è chi vede in questo processo la reazione di Putin all’ondata di privatizzazioni «truccate» realizzate negli anni Novanta dal capitalismo selvaggio degli «oligarchi». I quali, secondo le intenzioni del presidente, vengono ora contrastati nella loro influenza, ma nello stesso tempo rinascono sotto nuove spoglie, purché, questa volta, siano ben visti dal potere di Stato.
Esemplare è stata anche la dura condanna inflitta da un tribunale all’ex-petroliere Khodorkovsky, accusato di reati fiscali ma in realtà colpevole di aver finanziato gruppi di opposizione. Il controllo dell’economia nazionale si abbina inoltre a una decisa volontà di Putin di ristabilire l’influenza russa sui paesi ex-sovietici in Asia, proiettando l’influenza di Mosca di nuovo a livello globale e particolarmente sull’Europa. Un’operazione, questa, compiuta senza brandire l’arsenale nucleare ma ricorrendo a due strumenti quasi altrettanto micidiali: il controllo sulle Organizzazioni non governative (ONG) da una parte e la coercizione attuata attraverso la mancata concessione di risorse energetiche (gas e petrolio) dall’altra.
Rientra in questa strategia la definitiva approvazione, venerdì scorso alla Duma, della legge restrittiva sull’attività delle ONG in Russia, d’ora in poi sottoposte a continui controlli statali, spesso ottusi e burocratici. Il motivo è che il Cremlino considera queste organizzazioni di volontari come largamente finanziate dall’Occidente e dagli Stati Uniti al fine di aumentare l’influenza di Washington più che a difendere la società civile e a promuovere principi democratici. In altre parole, Putin non vuole correre il rischio che si ripetano casi ucraini o georgiani (rivoluzione arancione e delle rose), la cui «de-russizzazione» sarebbe stata influenzata e sostenuta, appunto, da organizzazioni internazionali.
Dalle stesse motivazioni è dettata la disputa sul gas che divide la Russia e l’Ucraina. Da Mosca è arrivata la minaccia di sospendere le forniture alle ore 10 del 1. gennaio prossimo, se l’Ucraina, guidata dal filo-occidentale Viktor Yushenko, non accetterà di pagare il gas fornito al prezzo di mercato, ovvero quasi cinque volte quello attuale. La disputa ha assunto una chiara valenza politica in vista delle elezioni parlamentari che si terranno a Kiev in marzo. A questo punto le domande sono più che legittime. Come deve comportarsi l’Occidente di fronte alle «chiusure» di Mosca?
Può non batter ciglio, in particolare considerando il fatto che con l’inizio del 2006 la Russia di Vladimir Putin assumerà la guida del G8, ospitandone in luglio il summit a San Pietroburgo? In quella occasione il presidente Bush ripeterà con Putin l’exploit pro-democrazia fatto durante la recente missione a Pechino, quando pose a sorpresa la questione della libertà religiosa al presidente cinese Hu Jintao? La missione a Pechino si è praticamente conclusa con l’accettazione di un dialogo tra sordi. Con la Russia, l’Occidente vedrà probabilmente capitare lo stesso. Perché un conto sono le intenzioni e le singole riprovazioni, un altro sono gli interessi economici nazionali che, dalle due parti, procedono nella più completa indipendenza (o indifferenza).
Da parte sua, il presidente Putin cerca, nonostante tutto, di consolidare i buoni rapporti sia con USA e UE sia con la Cina e altri paesi più «critici» verso l’Occidente (come l’Iran e il Venezuela). Cercando di distogliere l’attenzione dalla mancanza di progressi nella guerra calda in Cecenia, il Cremlino si comporta da alleato responsabile dell’Occidente nei confronti del terrorismo e delle ambizioni nucleari iraniane (in discussione è il compromesso trovato nel proporre congiuntamente a Teheran di spostare in Russia l’arricchimento dell’uranio).
Da parte opposta, l’Europa non dimentica di importare dalla Russia il 25-30 per cento del suo fabbisogno energetico né che Mosca intrattiene rapporti di collaborazione con la NATO e con la UE. Mentre il presidente Bush rincorre l’obiettivo di stringere con la Russia un accordo bilaterale volto ad aprire le porte all’importazione di gas russo, consentendo alla Gazprom di approvvigionare entro il 2010 il dieci per cento del mercato americano. L’estrazione del gas naturale nel Mare di Barents è previsto venga in quel caso affidato ad un consorzio di aziende per il quale sono attualmente in lizza americani, francesi e norvegesi.
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