
New York – Mentre il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, solo pochi giorni fa ha confermato che un attacco armato contro l’Iran non è in agenda, gli analisti continuano a interrogarsi sulle conseguenze che lo scoppio di un conflitto in Medio Oriente avrebbe sui prezzi del petrolio, e quindi, sulla crescita economica. E’ infatti proprio il timore che l’economia americana, che negli ultimi mesi ha cominciato a mostrare segnali più evidenti di ripresa, possa deragliare è uno dei motivi che – secondo gli esperti – spinge il Pentagono a posticipare un’azione militare contro Teheran.
Che il prezzo del greggio sia particolarmente sensibile all’argomento è dimostrato dal fatto che, di pari passo all’inasprimento delle tensioni mediorientali, le quotazioni si sono stabilizzate giorno dopo giorno sempre più in alto: da inizio anno, i prezzi del Brent sono saliti del 6%. E l’ipotesi che l’Iran, secondo produttore di petrolio dell’Opec, possa chiudere i rubinetti (esporta 2,5 milioni di barili di greggio al giorno) alimenta scenari da incubo.
Qualche numero per avere un’idea. Un’analisi condotta dalla società di ricerche Rapidan Group prevede che un attacco aereo mirato contro l’Iran, seguito da una risposta iraniana, causerebbe rialzi del Brent più o meno intorno ai 23 dollari al barile rispetto alle quotazioni attuali (ieri il Brent ha sfondato la soglia dei 125 dollari al barile) . Un conflitto più lungo, in presenza di una breve chiusura dello Stretto di Hormuz, farebbe schizzare i prezzi di oltre 60 dollari al barile. E con queste previsioni non è difficile immaginare effetti negativi sull’economia. Ed Morse, analista di Citigroup, stima che se il petrolio dovesse raggiungere 150 dollari al barile, gli Stati Uniti perderebbero due punti percentuali della crescita economica “quanto basta per trasformare la ripresa nascente in una recessione”.