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TREMONTI SI PREPARA A UN GOVERNO QUASI-TECNICO PER IL DOPO-BERLUSCONI

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(WSI) – Le parole chiave per fotografare la grande paura sono: “transizione” e “governo tecnico”. Silvio Berlusconi, chiuso nella war room di palazzo Chigi coi fedelissimi, ha messo in fila gli elementi di questi giorni. Spiega chi ha parlato con lui: “Non siamo di fronte a una nuova tangentopoli di toghe rosse con una regia politica. Siamo passati dall’attacco a Berlusconi all’accerchiamento, attraverso l’azione giudiziaria su chi lavora con lui ispirata da alcune lobby. La manovra è il logoramento di questo governo per sostituirlo con un esecutivo di transizione”.

I segnali arrivati al premier in questi giorni sono chiari. Su tutti: nessuno vuole le elezioni anticipate. Il Pd, pure la sua ala legata all’Anm, ha scelto toni morbidi (non ha neanche firmato la mozione di fiducia su Scajola) e Di Pietro non ha riempito piazze. Forse perchè il sistema Anemone-Balducci attraversa pure l’era dipietrista ai lavori pubblici. E sulla “trasversalità” della cricca il premier ha chiesto informazioni. E non è un caso che negli ultimi giorni circolano veleni a palazzo Chigi: “I legami di Bertolaso con Rutelli sono quantomeno sospetti. C’è un timing perfetto tra nascita dell’Api e Protezione civile Spa. Col senno di oggi quell’operazione è sospetta. Risulta che in quel periodo le frequentazioni tra i due erano intense come ai tempi del Giubileo”.

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Sospetti. Dietrologie, forse. L’indicatore vero della “manovra” è l’aggressività del Corriere sugli scandali di questi mesi. Tanto che il premier, quando ha letto gli ultimi editoriali di Pigi Battista, ha chiamato il costruttore Ligresti, che siede nel salotto buono del Patto Rcs: “Che succede? Dammi qualche informazione su quello che sta succedendo”.

Un ministro azzurro che ha partecipato alla war room spiega le conclusioni: “Il punto centrale non è Fini, la cui linea è stata battezzata dal Corriere come “fallo di frustrazione”. Lui scuote l’albero ma saranno altri se continua così a raccogliere i frutti”. Il grande tessitore degli altri, quei mondi cioè che ruotano attorno al Corriere e al Sole, è Giulio Tremonti, garante per molti di una transizione post-berlusconiana a perimetro invariato, a maggioranza Pdl-Lega, qualora il governo tra crisi economica e scandali non dovesse reggere più.

E’ per sventare questa ipotesi che il Cavaliere è al lavoro. Perché oramai lo scioglimento anticipato è difficile. C’è la crisi. E c’è Napolitano con cui Tremonti ha parlato della necessità di una stabilità di governo una decina di giorni fa. Per questo il premier ha deciso che terrà l’interim di Scajola fino a quando non finirà la “retata” di ministri. Poi il passaggio a Romani, un fedelissimo. Anche se ieri durante il consiglio dei ministri il premier è sbottato: “Se non la finiamo con questo balletto di poltrone metto un tecnico”.

Ma qualche settimana serve. Anche se dopo un briefing familiare – nel senso di Mediaset – Berlusconi ha deciso che l’interim non può essere lungo. Causa, il solito conflitto di interessi: quel dicastero infatti dovrà fare una gara per aggiudicare le frequenze digitali. E diventerebbe complicato per il premier gestirla da proprietario di Mediaset e ministro.

Ma la testa del Cavaliere è tutta sulla retata. Poiché questa volta dietro le procure ci sono gli interessi che puntano a quello scenario di transizione anticipato dal Riformista già da mesi. A palazzo Chigi si sono fatte più insistenti le voci di imminenti visite della polizia giudiziaria al ministero di Matteoli. Il timore riguarda i ritardi della costruzione del ponte sullo Stretto. Sono state disboscati i punti dove saranno piantati pilastri, per il resto è tutto fermo. E visto che il cantiere non è partito “qualcuno potrebbe cogliere l’occasione per rivedere i prezzi”. Tra un’ipotetica insoddisfazione di Impregilo e la scure giudiziaria ce ne passa.

Ma nella war room del Cavaliere sono convinti che qualcosa (nel senso di guai) accadrà. E non solo perché il ponte sullo Stretto fa parte di quel piano per il Sud – già pronto nel cassetto che fu (un caso?) di Scajola – non troppo gradito al partito del nord. Ma soprattutto perché un colpo alle grandi opere intaccherebbe e non poco l’immagine del berlusconismo “del fare”.

Già, la retata. Il premier su ogni dossier applica la domanda: a chi giova? Su Fastweb, ad esempio: come mai – si sono chiesti nel war room – Scaglia è in carcere da settanta giorni e la Telecom non viene toccata? Come mai, se la loro cartiera è molto più grossa? E perché si è andati vicini al commissariamento di Fastweb?

Grandi opere, telefonia, pure l’eolico è diventato un terreno minato: “Se pensano – ha affermato categorico il premier – che io ceda su questa cosa si sbagliano. C’ho messo la faccia con gli elettori per bloccare l’eolico in Sardegna e non torno indietro”. Anche se qualcosa non quadra: come mai Verdini dava indicazioni su una questione su cui il Cavaliere aveva già deciso e su cui è al lavoro una task force per la Sardegna a palazzo Chigi? Chissà.

Tempo dunque. Il premier si è convinto che dopo questo sisma giudiziario i cosiddetti poteri forti puntano a un governo tecnico. Il premier ha sottolineato che Scajola è caduto su uno scandalo che risale al 2004, quando era un ministro assai poco influente visto che si occupava di “attuazione del programma”. Ma da ministro influente in questa legislatura ha fatto innervosire poteri che contano. Come l’Eni di Scaroni sulla delicata partita del nucleare visto che il titolare dello Sviluppo economico ha virato rispetto al piano originario che metteva attorno a un tavolo tutti i player energetici secondo un meccanismo “distributivo ed ecumenico”.

Non solo. Dopo che Eni – che collabora con Gazprom per la realizzazione dell’oleodotto Southstream – ha ottenuto da Putin l’accordo sullo smaltimento delle scorie nucleari si è verificato uno squilibrio penalizzante per il cane a sei zampe. Ovvero anche per quel “cotè americano – dicono a palazzo Chigi – che ha seguito con sospetto tutta l’operazione”. A completare la moltiplicazione degli scontenti, la gestione del caso Fiat: è stato un errore dire a Marchionne “prima risolvi Termini Imprese e poi parliamo di incentivi”. Ora che Marchionne ha presentatato un piano industriale e il titolo è salito la Fiat ha presentato il conto.

E l’ha presentato con Montezemolo fuori, pronto per l’impegno politico. In molti nella cerchia ristretta hanno consigliato al premier di “non lasciare libero Luca” e di “coinvolgerlo subito, considerato che la sinistra, viste le sue condizioni, farebbe carte false pur di appoggiare un leader presentabile”. Ma il Cavaliere è stato netto: “Il tormentone dura da anni, non ho alcuna intenzione di aumentare i galli nel pollaio”.

Così come il Cavaliere ha scelto una linea dura con Fini: “Voi – ha detto ai suoi – dovete pensare a essere presenti in Parlamento, non possiamo andare sotto in continuazione. A quello ci penso io”. E’ convinto che Fini sulle procure continuerà a fare il guastatore. E suona come un fosco presentimento la frase che il presidente della Camera disse a Matteoli, diventata un tormentone a palazzo Chigi: “La pagherai e molto più cara di quello che immagini”. A che si riferiva? Un eventuale “doppio effetto giudiziario” su Matteoli e La Russa “sposterebbe una ventina di deputati da dove grandina a dove c’è l’ombrello”, per dirla coi fedelissimi. Per inciso: quando scade il legittimo impedimento pure il premier è a rischio pioggia.

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