Prosegue l’altalena dell’azionario, spinta ancora dall’abbondante liquidità presente sui mercati, alla
caccia di rendimenti considerati “decenti”, e dalle ottimistiche attese di uno scenario di ripresa globale,
ma poi frenata dalle inevitabili prese di profitto che seguono il rally degli ultimi quattro mesi e dai timori
del ripetersi della falsa partenza dello scorso anno.
In effetti, almeno negli USA qualche segnale di riavvio
dell’economia, dopo lo stallo registrato nel primo semestre, inizia ad emergere, soprattutto nel comparto dei
consumi, mentre i risultati aziendali appaiono persino un po’ migliori del previsto, con gli utili trimestrali in crescita
di un 6% circa su base annua. I listini avevano però già corso parecchio, scontando implicitamente più sorprese
positive di quante se ne siano finora verificate, da cui lo spunto per alleggerire le posizioni in attesa di capire se
davvero tutto proceda sulla strada dell’auspicata ripresa.
A complicare il quadro, paradossalmente, ci si è messa la
caduta dell’obbligazionario, più acuta sulla parte lunga della curva e nell’area del dollaro: il brusco rialzo dei
rendimenti, da un minimo del 3,11% sui decennali USA a metà giugno, fino al 4,2% (ora siamo posizionati sotto il
4,1%), potrebbe infatti frenare la ripresa, bloccando il flusso dei rifinanziamenti ipotecari che tanto ha stimolato
finora i consumi delle famiglie (era il problema che avevamo sollevato proprio settimana scorsa).
Di tutto ciò la
FED sembrerebbe un po’ preoccupata, almeno a giudicare dall’intervento di Bernanke ieri ad una tavola rotonda
sull’economia e dalle indiscrezioni rese note stamani dai soliti bene informati del Wall Street Journal. Bernanke,
uno dei più stimati membri del FOMC e tra i più accreditati ad assumerne la presidenza allo scadere del mandato
di Greenspan, ha voluto fare chiarezza sui temi della deflazione-disinflazione e sul ruolo della Banca Centrale in
simili scenari. L’impressione è che il recente rialzo dei rendimenti sia stato superiore a quanto preventivato dalla
stessa FED; da qui la necessità di messaggi rassicuranti e chiarificatori volti ad impedire che la correzione dei
Treasuries si trasformi in una vera e propria rotta, in grado di compromettere le sorti dell’economia.
Ad accentuare
la discesa era stato anche il disappunto per le intenzioni della FED, da cui l’importanza, ribadita ieri da Bernanke,
di una più attenta politica di comunicazione. Dopo il meeting del FOMC il 6 maggio si era infatti diffusa l’aspettativa
non solo di tagli dei tassi più robusti del quarto di punto poi realizzatosi a fine giugno, ma anche di imminenti
interventi “non tradizionali” (tra cui acquisti di titoli a lunga scadenza sui mercati al fine di influenzarne il
rendimento); nel successivo incontro queste speranze sono andate però deluse e, complice anche il lievitare del
disavanzo federale e le attese di forte riavvio congiunturale nella seconda metà dell’anno, alimentate proprio dalla
FED, il reddito fisso è andato incontro ad un momento difficile.
Secondo Bernanke, l’ipotesi della deflazione è molto remota, ma più attuale appare l’eventualità che
l’inflazione continui a decelerare, fino a scendere sotto la soglia chiave dell’1% annuo (attualmente il deflatore
della spesa per consumi viaggi su ritmi dell’1,2%, dall’1,7% di un anno fa). Considerati i problemi di rilevamento dei
prezzi di un significativo paniere di beni e servizi e il rischio di temporanee frenate, per Bernanke l’obiettivo di
stabilità dei prezzi andrebbe considerato già raggiunto attorno al livello dell’1% di inflazione; sotto questa soglia ci
si avvicina invece pericolosamente a quella zona oscura in cui la politica monetaria rischia di diventare inefficace,
dato che i tassi nominali non possono essere negativi.
Poiché non è affatto da escludere che nei prossimi diciotto
mesi il tasso di inflazione possa scendere sotto l’1% (si parla sempre del deflatore dei consumi), la politica
monetaria dovrà sicuramente rimanere espansiva, fintanto che non saranno garantite condizioni di decisa e solida
ripresa economica; i tassi potrebbero inoltre tranquillamente scendere fino allo zero, se fosse necessario,
accompagnati da paralleli interventi di natura “non tradizionale”.
Bernanke peraltro ha fiducia in un riavvio
dell’economia USA nella seconda metà dell’anno e giudica quindi opportuno per la FED limitarsi a mantenere fermi
i tassi il più a lungo possibile sui livelli attuali, visto che al tempo stesso giudica poco concreta anche l’eventualità
di una brusca ripresa dell’inflazione. Ma per lui, visti i nessi tra mercati finanziari ed economia reale, è
essenziale stabilizzare le aspettative sull’obbligazionario; e qui la comunicazione può giocare un ruolo persino
superiore a quello dei fatti.
L’ipotesi avanzata da Bernanke a questo proposito è che la FED definisca che cosa intende come obiettivo di “stabilità dei prezzi”; non sarà un target d’inflazione puntuale, piuttosto un range che
faccia comunque da riferimento oggettivo alla politica monetaria: sotto certe soglie di attenzione questa dovrebbe
rimanere espansiva, mentre al di sopra di altre tornerebbe ad essere restrittiva. Il mercato ne sarebbe a
conoscenza e ciò favorirebbe una sua maggiore stabilità, senza gli eccessi cui si è assistito negli ultimi due mesi,
forse proprio a causa dei messaggi equivoci inviati dalla stessa FED. Ieri l’obbligazionario ha reagito positivamente
a questo intervento; e visto lo scenario macro che si prospetta, a nostro avviso assai meno brillante di quanto la
stessa FED e il consenso degli investitori ritengono, come dicevamo qualche giorno fa anche il de profundis
dell’obbligazionario, almeno per le scadenze intermedie (5-7 anni), ci sembra un po’ prematuro.
Michele Pezzinga e’ capo strategist di Eptasim