Roma – Sono passati esattamente dieci anni da quando Silvio Berlusconi, in piena campagna elettorale, firmò nel salotto televisivo di “Porta a porta” il “contratto con gli italiani”.
Cinque promesse, delle quali “almeno quattro” da mantenere nell’arco di cinque anni. La prima riguardava la riforma fiscale. Di anni ne sono passati il doppio e il leader del PdL ha governato per tutto questo tempo ad eccezione di un anno e mezzo dell’esecutivo guidato da Romano Prodi. Che ne è stato di quel “contratto” che voleva rappresentare un impegno vincolante preso con tutti gli italiani?
Tra le promesse, compariva l’abbattimento della pressione fiscale: con l’esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire annui; con la riduzione al 23 per cento per i redditi fino a 200 milioni di lire annui; con la riduzione al 33 per cento per i redditi sopra i 200 milioni di lire annui; con l’abolizione della tassa di successione e della tassa sulle donazioni.
Di questi solo l’ultima misura, l’abolizione della tassa di successione, e’ stata adottata. Entrata in vigore nel 2001 e’ poi pero’ stata reintrodotta dal governo Prodi, anche se solo per grandi patrimoni.
Spremuta di ceto medio in arrivo. Il governo conta di varare in tempi rapidi, magari già stasera, la manovra chiesta dall’Europa. Se le indiscrezioni circolate ieri saranno confermate, il decreto conterrà una nuova imposta sui redditi. Non si chiamerà «eurotassa», ma la sostanza sarà esattamente quella. In ossequio alle esigenze del marketing il nome scelto sarà «contributo di solidarietà», o qualcosa di molto simile: chiaro omaggio del governo di centrodestra a una lunga tradizione della sinistra, che per decenni ha usato l’etichetta della solidarietà, ovviamente coatta, per rendere presentabili i peggiori balzelli (Sergio Ricossa, economista liberista, nel 1993 scrisse un pamphlet intitolato «I pericoli della solidarietà» proprio per mettere in guardia da simili fregature, ma dell’attuale parlamento l’unico ad averlo letto è il forzista Antonio Martino, che infatti non fa il ministro).
Così, se avete un reddito lordo dai 90mila euro in su, ovvero un’entrata netta mensile pari almeno a 3.700 euro, non vi preoccupate se un terzo ve lo porta via l’affitto e se col resto dovete mantenere due o tre figli: siete ricchi, anche se non lo sapevate, e quindi avrete il privilegio di portare il Paese in salvo sulle vostre spalle. È la traduzione tributaria dell’aureo principio illustrato da Giuseppe Prezzolini: «L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano».
La tassa su cui si ragiona – pardon, il contributo equo e solidale – dovrebbe sfilarvi dal 5 al 10% del reddito che eccede la soglia dei 90mila. Da questo intervento, dal probabile innalzamento immediato al 20% della tassazione sulle rendite finanziarie e da qualche forma di patrimoniale, anch’essa magari da edulcorare nel nome, dovrebbe arrivare gran parte dei 30-35 miliardi di euro necessari a raddrizzare la manovra varata poche settimane fa, che già appare inadeguata, e ad anticipare il pareggio di bilancio nel 2013, come ci è stato garbatamente chiesto dalle istituzioni internazionali e dai nostri partner europei.
Se può consolare, l’idea di varare simili provvedimenti fa schifo anche allo stesso Silvio Berlusconi. Il quale, a causa della nefanda congiuntura, si trova a dover alzare la pressione fiscale proprio nel momento in cui contava di abbassare le tasse. Un proposito che era motivato sia dalla sua conclamata avversione istintiva nei confronti dello Stato gabelliere, sia da un ovvio calcolo politico, visto che di qui al 2013 si vota. Non a caso il presidente del Consiglio sta spingendo affinché l’eurobalzello sui redditi sia ufficialmente «temporaneo», destinato a durare solo un paio d’anni. Ma perché si possa davvero cancellare la tassa bisognerà che nel frattempo l’economia internazionale si sia ripresa sul serio e che governo e parlamento abbiano trovato la forza di fare tagli consistenti e strutturali alla spesa pubblica: due condizioni che al momento appaiono improbabili.
Il disgusto del Cavaliere è confermato dall’atteggiamento dei suoi fedelissimi. Quattro dei quali (Isabella Bertolini, Guido Crosetto, Lucio Malan e Giorgio Stracquadanio) ieri hanno annunciato in pubblico che se le cose andranno come ha detto alla Camera Giulio Tremonti, cioè se la manovra sarà fondata sul ricorso a nuove tasse invece che sulla riduzione della spesa pubblica, non riusciranno a turarsi il naso e a votare il decreto. In realtà il numero dei malpancisti è molto più alto, e se escono allo scoperto in pochi è solo perché per ora gli altri preferiscono esprimere la loro contrarietà in forma riservata, e soprattutto perché i nove decimi del Parlamento sono ancora sotto l’ombrellone. Torneranno nelle prossime settimane per votare il provvedimento e se non cambia qualcosa se ne vedranno delle belle, tra loro e Tremonti.
Il quale, nel momento supremo, scopre di aver perso ancora una volta la stampella più importante: Umberto Bossi e la Lega non intendono accettare gli interventi sulle pensioni ipotizzati dal ministro dell’Economia e lo attaccano frontalmente, senza riguardi. Tutto questo, come si può intuire, non migliora l’immagine dell’Italia dinanzi agli investitori chiamati a dare un prezzo ai titoli di piazza Affari e ai bond del nostro debito pubblico.
Se non si fosse capito, insomma, sono in arrivo giorni ancora più difficili di quelli che abbiamo appena visto: in Parlamento, sui mercati e – grazie alla puntuale mobilitazione generale annunciata dalla Cgil – nelle piazze. Comunque vada a finire non sarà un bello spettacolo. Né per la nostra classe politica né, soprattutto, per i «fessi» chiamati a sopportare il carico dell’ennesima manovra.
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