Dopo avere seguito gli sviluppi del primo rialzo piuttosto prevedibile nato dalla risoluzione delle incertezze legate alla crisi irachena, scrivemmo che i mercati azionari sembravano avere stabilito definitivamente la base per un rally molto consistente.
Quel rally molto consistente si è in effetti realizzato e continua a trovare la propria esplosiva miscela prevalentemente nello schiacciamento dei tassi di interesse, nominali e reali, che rende improduttive le posizioni liquide e le costringe a inseguire i prezzi dei diversi asset reali o finanziari. Esso si nutre inoltre di una duplice frustrazione che da qualche settimana continua ad affliggere due categorie di operatori. Gli orsi che non credevano a un rally così esteso continuano a venire schiacciati in ogni loro tentativo di andare short, mentre molti di coloro che sono andati lunghi solo parzialmente si ritrovano spiazzati di continuo da un mercato che non conosce ampi ritracciamenti.
Ad ogni storno fallito, e in virtù del loro limitato investimento iniziale dovuto a ragionevoli motivi di prudenza, questa seconda categoria di operatori è pertanto costretta, adesso per motivi di performance sempre più impellenti, a inseguire il mercato onde evitare di perdere ulteriori opportunità di profitto.
Il risultato finale lo abbiamo sotto gli occhi: un mercato caratterizzato da un forte momentum come non si vedeva dai tempi della bolla. Gli indicatori di breath del mercato, i volumi registrati, e anche il numero di titoli che registrano nuovi massimi, sono impressionanti. Da qualche settimana gli analisti hanno cominciato ad affermare con fermezza e in maniera quasi unanime la morte definitiva del mercato orso. Il sentiment registrato la scorsa settimana è stato uno dei massimi dal 1987 e vede attualmente il 58.7% di rialzisti contro il 16.3% di ribassisti.
Nonostante la forza dimostrata dal rialzo degli ultimi mesi e pur continuando a credere nelle discrete possibilità di una ulteriore estensione dello stesso, ciò a cui stiamo assistendo non è a nostro avviso l’avanzata di un nuovo mercato bull, quanto piuttosto la realizzazione di uno degli eccessi speculativi più estremi dallo scoppio della bolla avvenuta nel marzo del 2000. La causa ultima di tale esuberanza sarebbe riconducibile, oltre che al ribasso forzato dei tassi di interesse, al fenomeno parallelo di “moral hazard” che abbiamo richiamato più volte nelle nostre osservazioni.
Fenomeno che si nutre prevalentemente della garanzia esplicita fornita dalla Fed, e a ruota dalle altre banche centrali, contro qualsiasi minaccia deflazionistica in grado di interessare gli asset finanziari prima ancora che i prezzi al consumo (quest’ultima ipotesi ancora inosservabile a occhio nudo se non nella asettica lettura delle statistiche governative). Un’assicurazione a cui il mercato evidentemente crede e che si risolve in una imprudente e generalizzata minimizzazione dei rischi percepiti.
Nonostante siano da tempo chiare le dinamiche che portarono alla bolla, e per analogia con le esperienze storiche anche i rischi e le conseguenze generalmente inevitabili ad esse associate, il fenomeno di “moral hazard” continua a offuscare la capacità di giudizio degli operatori e a mantenere estremamente fertile il terreno per lo sviluppo di un sistema finanziario sempre più impavido. Confidando sulle capacità illimitate di sostegno da parte delle banche centrali, e posizionandosi su ogni genere di asset reale e finanziario a prescindere dal reale rischio implicito, il mercato continua a scommettere le illimitate risorse elargite a monte (a costi oramai bassissimi) secondo una struttura piramidale.
Come sottolineava già tempo fa Gary North, economista della scuola austriaca i cui commenti appaiono spesso sul sito di Lew Rockwell, chi non si allinea a questa speculazione piramidale finisce con il sotto-performare rispetto agli operatori più aggressivi. Se gli investitori privati possono benissimo sfuggire a questa logica perversa accontentandosi di un profilo di rischio rendimento più basso, molto spesso gli investitori istituzionali non possono sottrarsi al gioco, pena la propria sopravvivenza. Il risultato, analogamente a quello raggiunto nella bolla azionaria di fine anni Novanta, è di attirare i capitali in uno sciame compatto all’inseguimento di prezzi e performance via via sempre più irreali.
Chi sta inseguendo i bond ai tassi più bassi degli ultimi 50 anni, chi sta comprando gli indici azionari in questa rivisitazione della bolla degli anni Novanta (“The Bubble Reloaded”), chi sta comprando obbligazioni di emittenti dati per spacciati solo otto mesi fa, è costretto in una situazione come quella attuale a farlo contro i propri criteri di prudenza e buon senso per non correre il rischio di sotto-performare.
In altre parole, i mercati finanziari, mantenuti costantemente e artificialmente iperattivi dalla liquidità distribuita oramai quasi gratuitamente, premiano gli operatori più temerari sollecitandoli e spingendoli alle speculazioni più aggressive, e penalizzano invece le strategie più prudenti tese più ragionevolmente alla conservazione e alla difesa del capitale. Come suggerisce Gary North, la fine della costruzione piramidale giunge nel momento in cui, come accadde per Enron, il debitore o, più in genere, gli operatori che sfruttano il ricorso al debito per massimizzare i propri investimenti, espandono la leva finanziaria oltre le proprie capacità di valutare correttamente i rischi impliciti.
Come abbiamo ripetuto più volte, questa situazione non trova analogie nei precedenti storici. Nonostante la percezione più diffusa sia sempre quella di una continuità lineare con gli eventi degli ultimi venti anni, caratterizzati da un esito costantemente positivo, gli esiti e le conseguenze del processo in corso (ancora legato alle dinamiche “post-bubble”) rimangono del tutto sconosciute agli osservatori, sia quelli più umili che continuano a osservare con estremo interesse il fenomeno, che di quelli meno umili convinti, senza ombra di dubbio, che quella linearità sarà ancora una volta rispettata.
Del resto, mai prima d’ora il sistema economico aveva potuto godere di una tale leva finanziaria né, d’altra parte, mai prima d’ora la banca centrale del sistema economico di riferimento si era trovata ad affrontare una economia “post-bubble” potendo fare piena leva sulla capacità di generare liberamente moneta creditizia per il sistema economico e soprattutto per quello finanziario. Il caso giapponese essendo un caso a parte, vuoi per il completo ricorso all’elevato risparmio domestico che differenzia il Giappone dagli USA, vuoi per la sovrapposizione del proprio “dopo-bolla” a una fase di forte espansione economica delle altre economie industrializzate.
Ed è nostra sensazione che in tale tentativo di combattere le conseguenze inevitabili di un boom insostenibile la banca centrale americana abbia superato già da tempo il punto di non ritorno. Cercare di contenere la costruzione piramidale che diede luogo al boom di fine millennio sarebbe stato politicamente inaccettabile. E una volta scoppiata la bolla, la scelta di porre fine una volta per tutte a quei meccanismi di speculazione piramidale basata sul debito venne rifiutata (soluzione ancora politicamente inaccettabile) a favore di un’estensione ulteriore delle politiche che avevano generato il boom rivelatosi insostenibile. Con le politiche monetarie degli ultimi tre anni, quel punto di non ritorno potrebbe essere stato superato: é nostra opinione infatti che un rallentamento dell’espansione dell’offerta di moneta sarebbe oramai in grado di minacciare la solvibilità dell’intero sistema.
Novanta anni fa Ludwig von Mises aveva previsto e definito questa situazione altamente critica come “crack-up boom”. Già allora, e in un contesto completamente diverso, il suo genio economico era arrivato a mettere in guardia dal pericolo concreto che il rifiuto del governo (oggi prevalentemente della banca centrale) di fermare l’espansione dell’offerta di moneta e di credito si sarebbe risolto in ultima analisi in una distruzione della valuta. Avvertenza sempre snobbata e marginalizzata ma più che mai attuale.
Come aveva previsto allora Von Mises, in assenza di tale autocontrollo, l’economia sarebbe stata soggetta a continui cicli di boom e bust fino ad un eventuale stadio finale. Quello che forse stiamo vivendo adesso, per quanto caratterizzato oramai da un boom solo finanziario e non più economico.
Dopo l’avventura fallita del paradigma della New Economy, pertanto, il paradigma del ricorso al debito e alla leva finanziaria come nuova via per sostenere e creare nuova prosperità rischia di essere l’ultima chimera di un sistema gestito da un controllore non più in grado di controllare neanche se stesso, condizione minima necessaria per garantire, in assenza di un rigido gold standard, la sopravvivenza di un “flat money regime”.
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