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TEMPESTA VALUTARIA: IL CAMBIO FISSO NON E’ UNA BUONA IDEA

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(WSI) – Il movimento di violenta riduzione della leva finanziaria, che sta colpendo l’intera architettura finanziaria del pianeta, si è negli ultimi giorni esteso al mercato dei cambi. Dapprima con la rivalutazione dello yen, poi con il marcato rafforzamento del dollaro. Cerchiamo di analizzare il fenomeno. Lo yen giapponese si trova oggi al massimo degli ultimi 13 anni contro il dollaro, e degli ultimi sei anni contro l’euro. Alla base del movimento sta soprattutto la chiusura delle posizioni di “carry trade”, in cui gli investitori si indebitano in divise a basso tasso d’interesse e comprano attivi in paesi ad alto tasso.

Il tasso d’interesse ufficiale giapponese, pari allo 0,5 per cento, è inferiore a quelli su dollari australiani ed euro rispettivamente di 5,5 e 3,25 punti percentuali. La scorsa settimana lo yen si è rivalutato dell’8,9 per cento contro dollaro, il maggior guadagno da ottobre 1998, e del 14 per cento contro l’euro, record settimanale dall’introduzione della moneta unica europea, nel 1999. A sua volta, l’euro si è deprezzato del 6 per cento contro la valuta statunitense.

Ma sono state soprattutto le valute dell’Oceania, da sempre obiettivo preferito dell’investimento in carry trade, ad essere colpite, anche a causa del crollo dei prezzi delle materie prime: il dollaro australiano in una settimana ha perso il 15 per cento contro yen, quello neozelandese il 13 per cento. Il movimento di rivalutazione dello yen è da sempre associato a fasi di mercato di accresciuta avversione al rischio, ma la sua magnitudine nel contesto attuale è destinata ad abbattersi con particolare violenza sulle esportazioni del paese, che stavano già scontando il rallentamento globale.

Il caso dell’apprezzamento del dollaro è in parte diverso, e segnala drammaticamente l’arrivo della crisi nei paesi emergenti. Facciamo un passo indietro di un decennio: dalla crisi del 1997-1998 è uscito un ordine valutario mondiale basato sul peg al dollaro statunitense da parte di molte divise di paesi asiatici. E’ quello che, impropriamente, è stato definito sistema di Bretton Woods II. Il sistema prevedeva che i paesi emergenti legassero in modo più o meno informale le proprie valute al dollaro statunitense, ad un cambio molto competitivo.

All’epoca il dollaro era forte, e ciò permetteva ai paesi asiatici di controllare le pressioni inflazionistiche, beneficiare di robusti flussi di export verso l’area del dollaro ed utilizzare il surplus commerciale così creato per finanziare il deficit delle partite correnti statunitensi, acquistando importi crescenti di titoli del Tesoro di Washington. Un meccanismo perfetto di credito di fornitura, funzionale ad alimentare i consumi statunitensi, ma che è entrato in crisi all’inizio di quest’anno: i rincari delle materie prime energetiche hanno creato forti surplus commerciali nei paesi produttori; questi ultimi, tuttavia, anziché consentire un apprezzamento delle proprie divise hanno mantenuto il peg al dollaro ed alla debolezza dell’economia statunitense.

Da qui, tassi reali fortemente negativi e boom di consumi e credito. In questo contesto si sono poi inserite le speculazioni di hedge funds e istituzioni finanziarie locali, che si sono indebitate in dollari a breve termine per comprare titoli ad alto rendimento, anch’essi espressi nella valuta statunitense. Di fatto il dollaro, con i suoi bassi tassi e la sua persistente debolezza era diventato quasi come lo yen, e cioè un veicolo di carry trade.

Per alcuni mesi si è ritenuto che i paesi emergenti potessero restare relativamente immuni alla crisi statunitense (lo scenario di decoupling), ma la realtà alla fine ha preso il sopravvento. La serie di garanzie statali sul credito, nei paesi occidentali, e l’avvio del processo di deleveraging hanno indotto e/o costretto molti investitori istituzionali a vendere gli attivi detenuti presso le banche dei paesi emergenti.

Queste ultime si sono trovate improvvisamente a corto di dollari per far fronte ai rimborsi di proprie passività, ed è iniziata la corsa alla valuta statunitense. Quindi, mentre le banche centrali dei paesi emergenti hanno accumulato rilevanti riserve in dollari (grazie al peg), le istituzioni finanziarie private di quei paesi hanno vanificato tale accumulazione, indebitandosi pesantemente in dollari. A ciò si aggiunga che, mentre nelle scorse settimane la Federal Reserve ha istituito linee di currency swap illimitato con le altre banche centrali dei paesi sviluppati, nulla del genere si è ancora verificato con gli istituti di emissione dei paesi emergenti, che stano quindi vivendo una replica della sindrome islandese (il rimborso di passività che eccedono le riserve valutarie nazionali), su scala infinitamente maggiore.

Nell’Est Europa la situazione è simile: tassi reali negativi derivanti dal peg all’euro hanno portato ad un boom di consumi e credito; banche, imprese e privati si sono indebitati in euro o in altre valute forti e a basso rendimento (in Ungheria, ad esempio, c’è stato un boom di mutui denominati in franchi svizzeri e addirittura in yen giapponesi), ed ora le casse nazionali si stanno drammaticamente prosciugando. La crisi dei paesi dell’Est Europa pesa anche sul cambio euro-dollaro, perché le banche europee sono particolarmente esposte a quest’area. Da qui potrebbe quindi originarsi il secondo epicentro della crisi, ed avere conseguenze molto pesanti per il sistema creditizio del nostro continente.

Quali indicazioni trarre dalle ramificazioni della crisi? Nelle ultime settimane abbiamo letto ed ascoltato appelli di politici europei che invocano “una nuova Bretton Woods”. Se con questa espressione si intende esprimere l’esigenza di nuovi accordi di cambi fissi o semifissi, è bene ricordare che la storia degli ultimi anni ha dimostrato in modo incontrovertibile che regimi di cambio che non riflettono i fondamentali economici sono la ricetta sicura per disastri di vasta portata.

Quindi, nessuna Bretton Woods con riferimento ai cambi, che dovrebbero invece essere lasciati liberi di fluttuare. Le altre istituzioni uscite dal meeting del luglio 1944 sono il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Oggi, l’entità delle cifre richieste per soccorrere i paesi emergenti in crisi è dell’ordine di centinaia di miliardi di dollari, a fronte di erogazioni medie del Fmi che storicamente sono sempre ammontate a poche decine di miliardi. Nel frattempo, nuovi protagonisti sono comparsi sulla scena finanziaria globale: i fondi sovrani, la Banca Centrale Europea, lo stesso nuovo ruolo della Fed.

La concertazione mondiale per salvare l’economia richiederà quindi la presa d’atto di ciò che è cambiato tra il 1944 ed il 2008. Aspirare ad una regolazione finanziaria globale (per quanto lieve e non pervasiva) è finora sempre equivalso ad un’utopia: tra poche settimane sapremo se la gravità della crisi è destinata a trasformarla in realtà.

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