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Telecom, dopo l’Argentina se ne va anche divisione brasiliana

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ROMA (WSI) – Oggi gli imprenditori e i manager italiani sono assillati dalla paura che si consumi una svendita dei gioielli strategici della nostra industria. Come ha ricordato anche quest’anno l’ex Premier Romano Prodi quest’anno, uno degli artefici delle celebri privatizzazioni degli Anni 90, è evidente che se un’azienda viene ceduta all’estero, anche i profitti escono dall’Italia.

Una dimostrazione di quanto reali siano questi timori l’hanno offerta i casi di Telecom Italia e Alitalia. Se quest’ultima ancora non ha trovato un acquirente disposto ad accaparrarsi l’ingente debito contratto dalla compagnia aerea, la prima è stata venduta agli spagnoli di Telefonica, i quali non hanno aspettato molto tempo prima di liberarsi, senza fare troppo rumore, di uno degli asset di punta del gruppo tlc: Telecom Argentina.

E dopo la divisione argentina, ora anche Telecom Brasile potrebbe essere ceduta se arrivasse una buona offerta. Lo ha detto il segretario generale della Slc-Cgil, Michele Azzola, riferendo le parole dell’ad di Telecom Italia Marco Patuano, al termine di un incontro durato oltre quattro ore tra sindacati e vertici dell’azienda.

“Patuano ha chiaramente detto che se arriva una buona offerta anche il Brasile e’ in vendita”, ha detto Azzola. Azzola ha sottolineato che sul peso di Telefonica in Telecom Italia “pende la decisione dell’Authority brasiliana“, dunque e dunque “e’ necessario che il governo riapra i giochi sulla riforma della legge sull’Opa” che rimetta quindi in discussione il riassetto di Telco.

I sindacati chiedono inoltre un incontro col governo perche’, dice Giorgio Serao della Fistel-Cisl, “malgrado la sollecitazione dei segretari generali non c’e’ stata ancora nessuna convocazione” da parte dell’esecutivo sulla vicenda Telecom.

Non è la prima volta che l’Italia sperimenta le privatizzazioni delle sue compagnie di bandiera. La differenza rispetto agli Anni 90 è che, indebolite dalla crisi economica e dalle condizioni creditizie difficili, le imprese italiane stavolta faranno fatica ad aggiudicarsi le quote delle migliori società a controllo principalmente statale, come Eni, Enel, Finmeccanica, Fincantieri, Fs e Poste.

Allora, per la dimensione delle vendite, nel mondo inferiori solo a quelle del Giappone e del Regno Unito, ma anche per l’efficace sequenza delle cessioni delle quote e per le procedure trasparenti, il piano venne salutato dai politici come un successo, diventando un caso di studio.

Tuttavia dal punto di vista prettamente economico, anche in quello come in altri esempi del passato il tentativo di abbattere il debito tramite la cessione di attività pubbliche si è rivelato un fallimento, ricorda Alberto Bagnai, professore di Politica Economica all’Università Gabriele d’Annunzio. “Ogni volta che si è proceduto in questa maniera, lo stock di debito non è stato sensibilmente intaccato”.