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TEAM AMERICA: CREDERE AI BOND O A GREENSPAN?

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*Alessandro Magagnoli e’ uno dei fondatori di Financial Trend Analysis

Le incongruenze che si evidenziano in questo periodo sui mercati finanziari
rischiano di fare perdere il sonno a più di un analista (vedi gli articoli di Wall Street Italia dal titolo TEAM AMERICA: CATASTROFISTI E ORSI IN AGGUATO e le risposte di Alessandro Giannotti (Consultique) TEAM AMERICA: DOW THEORY, ECCO L’INTERPRETAZIONE e di Maurizio Milano (Banca Sella) TEAM AMERICA: IL 2005 SARA’ TORO O ORSO?).

Il rischio che
l’interruzione di correlazioni ormai consolidate sia la spia di un possibile
crak delle borse infatti è elevato.

La più evidente di queste anomalie è
quella che riguarda i mercati obbligazionari. Come è possibile infatti che,
sulla scia dei recenti rialzi dei tassi operati dalla Riserva Federale, il
prezzo dei bond decennali Usa continui a salire? A rigor di logica ad un
innalzamento dei tassi a breve dovrebbe corrispondere un movimento analogo
anche per quelli a più lunga scadenza (per evitare un appiattimento della
curva), e quindi un calo dei prezzi dei titoli obbligazionari.

Le
spiegazioni date fino ad ora per questo fenomeno, cioè che l’elevata domanda
per il debito Usa da parte di Giappone, Cina, ed altri paesi dell’area,
legata alla volontà di evitare un eccessivo deprezzamento del dollaro (a
fini commerciali), non convincono del tutto. L’aumento della domanda è
innegabile, ma da solo difficilmente potrebbe compensare una variazione
delle aspettative nella direzione di una lunga scalata al rialzo dei tassi
di interesse.

L’impressione è che i mercati non siano affatto convinti che,
come dice insistentemente la Fed alla vigilia delle elezioni presidenziali
Usa, tutto vada bene, anzi benissimo, e che quindi sarà necessario
proseguire sulla strada dell’aumento dei tassi. Molti investitori sembrano
essere certi che i rialzi visti fino a qui siano stati un intervento
correttivo in risposta alle dinamiche evidenziate dai prezzi dell’energia, e
non una politica preventiva volta a “pilotare” la crescita su percorsi non
pericolosi per la crescita dei prezzi al consumo. Non ci sarebbe infatti la
necessità di raffreddare l’economia perchè non c’è nessun
surriscaldamento.

Se ad avere ragione fossero i mercati obbligazionari e non la Fed, per le
borse si preparerebbe una bella correzione: i prezzi attuali raggiunti dai
principali listini scontano infatti già una crescita degli utili consona ad
un periodo di rapida espansione dell’economia, e non ad una ripresa fiacca
come quella che potrebbe caratterizzare il dopo elezioni Usa. A non credere
ad una periodo di costante crescita dei tassi di interesse sembra essere
anche il dollaro, che si mantiene debole contro euro. Ancora una volta, se
gli operatori credessero veramente ad una netta riduzione del differenziale
dei tassi esistente tra le due monete, motivata da attese di crescita
brillante dell’economia, aggiusterebbero la propria percezione del giusto
valore dell’euro dollaro portandolo ben al di sotto di quota 1.20.

E’ vero
che la storia recente ci mostra una relazione inversa tra andamento del
prezzo del greggio e valore del dollaro, e che quindi il recente
raggiungimento di nuovi massimi da parte del petrolio depone a sfavore di un
rafforzamento di dollaro, tuttavia se sul mercato imperasse realmente l’idea
che il dollaro è destinato a rendere molto di più di quello che rende ora
difficilmente il suo valore sarebbe inchiodato in prossimità dei minimi
(massimi sul grafico) degli ultimi 6 mesi.

Su questo fronte c’è tuttavia
almeno un lato positivo: è vero che un dollaro relativamente debole può
essere lo spettro di una certa diffidenza nei confronti delle prospettive di
crescita dell’economia Usa, ma è anche vero che negli ultimi 2 anni ci siamo
abituati ad assistere a fasi positive di borsa in concomitanza con il
dollaro in calo. A preoccupare maggiormente sembra quindi essere il
comportamento comparato di azioni-obbligazioni.

Il modo migliore per
studiare il rapporto di forza tra questi due mercati è quello di analizzare
un grafico di forza relativa, una curva quindi derivante dal rapporto tra
mercati azionari (esemplificati dall’S&P500) ed obbligazionari
(esemplificati dal future sul decennale Usa). Il grafico risultante dal
rapporto non solo indica quale dei due mercati sovraperforma l’altro, ma, se
analizzato con gli strumenti comuni dell’analisi tecnica, permette anche di
fare previsioni sull’andamento futuro di entrambi.

In particolare il grafico
di forza relativa azioni/obbligazioni tende ad avere un andamento positivo
quando la borsa sale, come ad esempio nel periodo marzo 2003-marzo 2004, e
negativo quando le azioni cedono terreno. La trend line che sosteneva il
rialzo dai minimi del 2003 è stata violata a luglio di quest’anno, inviando
un primo segnale preoccupante per il destino dei listini.

Nel frattempo, a
partire dai top di inizio anno, sul grafico si è disegnata una fase
sostanzialmente laterale, dove tuttavia il picco dello scorso giugno
sovrasta marginalmente quelli di febbraio e di settembre. La figura che si è
disegnata negli ultimi mesi ricorda quindi molto un testa spalle ribassista,
tipico pattern di inversione che secondo i graficisti è in grado di
anticipare con il suo completamento una inversione di trend (in questo caso
da rialzo a ribasso).

La configurazione non è stata tuttavia ancora
completata, sarebbe necessario ancora un movimento, in termini relativi, del
2.7% circa (prezzi al 27/09) sfavorevole alle azioni per avere un segnale
netto in favore di una evoluzione ribassista dei listini. Un balzo del
decennale al di sopra dei massimi di inizio settembre, a 113.85, con
conseguente rottura della trend line che scende dai massimi del 2003,
sarebbe probabilmente sufficiente a generare il segnale ribassista anche sul
grafico di forza relativa.

In ogni caso, anche in attesa di vedere come si
comporteranno i bond in area 113.85, gli scricchiolii che provengono
dell’S&P non sono affatto confortanti: l’indice è infatti sceso nuovamente
sotto la media mobile a 200 giorni dopo aver completato il 22 settembre una
configurazione a doppio massimo, indicando così di aver almeno
temporaneamente esaurito il carburante del rialzo iniziato ad agosto.

L’ultima parola non è ancora detta, ma la base del canale rialzista seguito
dai minimi del 2003 è ormai vicina, in area 1085. La sua rottura potrebbe
precipitare gli eventi, lasciando libero sfogo ad una volatilità veramente
molto compressa, al di sotto anche dei minimi del ’98. Come comportarsi
quindi in questa fase? Ribilanciare il portafoglio in favore delle
obbligazioni alleggerendo l’azionario o attendere che i segnali grafici si
verifichino?

Considerando che da inizio anno l’S&P è sostanzialmente in
pareggio e che sui bond c’è un piccolo guadagno sarebbe anche possibile
prendere la decisione di chiudere tutte le posizioni, parcheggiando magari
una parte (piccola) sull’oro o strumenti collegati, in attesa di passare le
elezioni del 2 novembre. Indipendentemente da chi vincerà è possibile che
da
allora in poi la Fed torni ad essere più diretta nei suoi commenti,
indicando con maggiore chiarezza la strada che intende seguire in termini di
politica monetaria.

Se le azioni riprenderanno a salire, ma l’S&P dovrà
superare i 1150/60 punti per esserne certi, e le obbligazioni finalmente a
scendere, sarà possibile dire di aver frenato sull’orlo del baratro, e avrà
senso tornare a comprare titoli azionari. In caso contrario… armarsi di
pazienza ed attendere che i listini abbiano ritracciato almeno i 2/3 di
quanto guadagnato negli ultimi 2 anni (quindi aspettare l’S&P a 900 punti
circa) prima di tornare a corteggiarli.

Nota: Wall Street Italia ha aperto su questo tema un dibattito, invitando i piu’ qualificati analisti tecnici e graficisti italiani a dare il loro contributo: speriamo rivelino anche al resto del mercato cosa sta accadendo sulle borse americane. Pubblicheremo in Prima Pagina i migliori articoli che ci arriveranno via email (vedi qui sotto).