Società

TASSI:
TRA BCE E FED
CHE DIFFERENZA!

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Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) – E’ ormai pressoché certo che la prossima settimana la Banca Centrale Europea alzerà i tassi di interesse. Non accadeva da 30 mesi, un lunghissimo periodo durante il quale i tassi europei sono rimasti fermi al 2 per cento. Per capire quali saranno le conseguenze è utile partire da ciò che sta accadendo negli Stati Uniti.

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L’aumento del prezzo del petrolio ha spinto l’inflazione americana dal 2 al 4,3 per cento. I successivi interventi della Fed, che ha iniziato ad alzare i tassi di interesse oltre un anno fa, hanno tuttavia impedito che l’aumento dei prezzi si trasferisse ai salari, i quali continuano a crescere al 2 per cento. In altre parole, i salari reali orari negli Stati Uniti perdono un po’ più del 2 per cento l’anno. Ma non i redditi delle famiglie: in quel Paese straordinario i lavoratori reagiscono al taglio nei salari orari semplicemente lavorando più ore, in modo da mantenere invariato il reddito totale della famiglia. Più ore a salari reali ridotti è il modo in cui gli americani pagano la «tassa del petrolio», cioè trasferiscono una parte del loro reddito agli sceicchi. E così la Fed riesce ad impedire che si inneschi una rincorsa tra salari e prezzi, senza che ciò comporti una riduzione dei consumi e quindi della crescita.

La Banca Centrale Europea si propone ora di ripetere quanto sta accadendo Oltreoceano. Il suo presidente, Jean-Claude Trichet, ha fatto capire che la Banca è disposta a consentire che, per effetto del petrolio, l’inflazione superi temporaneamente l’obiettivo del 2 per cento, a patto però che la crescita dei salari rimanga sotto quella soglia. Ma le analogie tra Europa e Stati Uniti si fermano qui.

Il mercato del lavoro europeo è diverso da quello americano: per indurre gli europei a lavorare di più a un salario reale ridotto saranno necessari un brusco rallentamento dell’economia e un ulteriore aumento della disoccupazione. Insomma, nonostante il tentativo di Trichet di rassicurare i governi europei, quello della prossima settimana sarà solo il primo di una serie di aumenti dei tassi.

L’effetto probabile sarà un rapido rafforzamento dell’euro sul dollaro. Che il dollaro prima o poi si svaluti per chiudere l’enorme deficit estero degli Stati Uniti è inevitabile. La mossa della Bce avvicina quel momento, con buona pace dei timidi segni di ripresa dell’economia europea.

A Francoforte pensano che, di fronte a una politica monetaria rigorosa, ci convinceremo che è l’ora di cambiare le regole del nostro mercato del lavoro. Può darsi, ma secondo me è una scommessa rischiosa: ciò che temo accadrà sarà un euro molto più forte, meno esportazioni e meno crescita. E per l’Italia, che diversamente dal resto d’Europa si porta appresso una quantità straordinaria di debito pubblico, interessi più cari.

Si avvicinano le elezioni, ed è il momento dei programmi e delle proposte concrete. Comincio con due domande: 1) quale voce del bilancio dello Stato verrà modificata per pagare i maggiori interessi sul debito? Ricordo che con un rapporto tra debito e Pil del 106 per cento un aumento di un punto dei tassi costa allo Stato, dopo qualche anno, un punto di Pil.

2) Un anno fa, quando il cambio euro/dollaro toccò l’1,34, molte aziende dissero che avevano raggiunto il punto oltre il quale avrebbero cominciato a perdere e quindi sarebbero state costrette a chiudere. Di fronte ad un cambio euro/dollaro che potrebbe presto salire fino a 1,5 che prospettive offre alle imprese chi chiede voti per governare?

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