(WSI) – Ma insomma che cosa devono fare, i 450 mila italiani detentori di titoli del debito pubblico argentino, la cui conversione secondo i rapporti-capestro proposti da Buenos Aires comincia domani? Devono rifiutare seccamente il ricatto del governo argentino, esposto ai mercati ieri sera con voce flautata dal ministro argentino dell’economia Lavagna? Oppure devono accettare la forca sannitica e prendersela con l’improntitudine propria, e di tutti coloro che professionalmente dovevano metterli sull’avviso dei rischi che correvano comprandoli?
A dare retta a Nicola Stock, il presidente della cosiddetta “task force argentina” che rappresenta diverse migliaia di bondholder italiani e che ieri è stato ascoltato dalla Commissione finanze della camera, non è il momento di dividere ulteriormente le forze del nostro sistema politico-finanziario, reo di aver esercitato poca pressione sinora nei confronti del governo argentino. Di conseguenza, per Stock è meglio che i risparmiatori italiani rifiutino in massa di aderire alla conversione. Questa li porterebbe a recuperare solo il 25 per cento del capitale e, compresi i microinteressi previsti nell’offerta al pubblico, si arriverebbe al massimo a un 30 per cento del valore nominale dei titoli: ma entro un lasso di tempo compreso tra i prossimi 25 o addirittura 35 anni. «L’imbroglio più trasparente della storia, una stangata epica», l’ha giustamente bollato Stock.
Sul rifiuto, la Tfa è forte del sostegno contrattato nelle scorse settimane con l’Associazione delle banche italiane. Agli sportelli di tutti gli istituti, nei giorni in cui i risparmiatori dovrebbero comunicare la propria adesione, le banche si sono impegnate a spiegare tutte le controindicazioni celate nelle oltre 500 pagine del documento ufficiale, che costituisce l’informazione al mercato obbligatoria per legge. Le banche italiane contano così di farsi perdonare per non esser state altrettanto solerti, nello sconsigliarne l’acquisto ai propri clienti: visto che siamo l’unico paese al mondo in cui si concentra da solo un sesto del totale del debito argentino in default.
Così facendo le banche mirano a evitare al contempo il maggior numero di eventuali azioni giudiziarie in cui potrebbero incorrere, da parte di risparmiatori italiani decisi a rivalersi quanto meno nei loro confronti.
Stock ha ottenuto vasti consensi delle forze politiche, unite nel respingere l’offerta argentina, e nel chiedere al governo italiano un’iniziativa straordinaria sia verso Buenos Aires che in sede di Fondo monetario internazionale. Sentiremo oggi il ministro Siniscalco, che cosa avrà da dire al Parlamento.
Ma i risparmiatori devono sapere che in caso di mancato accoglimento da parte loro dell’offerta di conversione-capestro, nulla è in grado di garantire che potrebbero ottenere di più. La proposta argentina non prevede in realtà una soglia di adesione minima, sotto la quale essa cade e Buenos Aires è costretta a migliorarne le condizioni. La soglia che viene citata nel prospetto è quella, altissima e duplice, del 70 e dell’80 per cento, oltre le quali le condizioni del rimborso offerte migliorano di qualche entità: un modo insomma per sollecitare i bondholder a sottoscrivere in massa.
Ma nessuna cogente obbligazione giuridica spingerebbe Buenos Aires a ripensarci, se ad accogliere la sua offerta fosse anche meno del 50 per cento dei sottoscrittori: una cifra che comunque rischia di essere superata, se l’intero blocco dei fondi americani e del risparmio argentino accettano. I fondi Usa sono interessati alla ripresa dell’economia sul Rio della Plata, vanno meno per il sottile nel piangere perdite patrimoniali del povero pensionato italiano. In caso di conversione accolta da una percentuale comunque convenzionalmente giudicata bassa, spetterebbe al Fmi mettere il governo argentino nelle condizioni di migliorare le proprie proposte oppure tornare a una guerra aperta con l’istituto, guerra che l’ancor gracile ripresa di Buenos Aires renderebbe ulteriormente onerosa.
Un’altra condizione che i risparmiatori devono tenere presente è che non possono aderire alla conversione, se hanno dato mandato collettivo a una delle class action nei confronti dell’Argentina incardinate in diversi corti americane dai comitati internazionali di sottoscrittori. Ma riguarda pochi, qualche centinaio in tutto, sui 450 mila risparmiatori italiani al dettaglio implicati nel crac. La terza possibilità è che il governo italiano oggi stesso aggiunga un proprio impegno: consigli cioè ai risparmiatori a non aderire, perché Roma non solo si farà sentire in maniera energica con Buenos Aires e il Fmi, ma soprattutto la maggioranza si impegna altresì a varare – nell’ambito della promessa riforma del risparmio – un meccanismo di rimborso mutualistico per i risparmiatori coinvolti in disastri.
A un siffatto fondo, finanziato direttamente dagli operatori del mercato, sinora le banche italiane hanno opposto la più viva resistenza. In nome del rifiuto di una responsabilità collettiva indifferenziata, rifiuto anche più che comprensibile. E puntando sul fatto che pochi sono in ogni caso i risparmiatori che se la sentono davvero, poi, di sfidare in tribunale le singole banche.
Ed è proprio questa invece la quarta ipotesi cui lavoreremmo noi, se avessimo un’associazione dei consumatori per le mani: consiglieremmo cioè ai risparmiatori di prendere alla fine dall’Argentina quel che offre, e di citare a migliaia in giudizio le banche italiane per la parte restante di capitale non coperto. Questa risposta sì – anche se, lo ammettiamo, vagamente populista – se praticata dai risparmiatori italiani in massa, obbligherebbe politica e banche a darsi davvero da fare.
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