(WSI) – Un anno fa di questi tempi, prendeva le mosse l’indagine parlamentare sul risparmio tradito dai casi Cirio e Parmalat. Tremonti si accingeva il 20 gennaio a una rovente audizione in cui svelava un lungo carteggio in cui le sue richieste di spiegazioni su molte operazioni sospette non avevano trovato risposta da Bankitalia. Il 27 il governatore Fazio si sottoponeva a domande che costituiscono dell’attuale legislatura la summa dell’unica occasione in cui la politica ha toccato il nodo vero dei poteri forti italiani: che attualmente sono solo quelli bancari.
Tengono in mano coi debiti gran parte dei malandati gruppi industriali, tranne un paio di oligopolisti pubblici; ripianano i debiti di partiti di entrambi gli schieramenti; condizionano larga parte della stampa italiana di cui o sono diventati azionisti come al Corriere, o prestatori essenziali come in quasi tutti gli altri casi. Questa è l’unica e vera spiegazione del perché dopo un anno la riforma del risparmio non sia uscita dal Parlamento, e questa settimana a Montecitorio riprende il suo iter da dove è fermo da ormai molti mesi: cioè dalla scelta decisiva se la riforma debba consistere solo in 13 articoli di potenziamento della Consob, lasciando le regole e la vigilanza sul mondo bancario esattamente com’è oggi, oppure se i pochi residui e tenaci sostenitori di una riforma organica riusciranno a spuntarla.
Il Riformista non ha esitazioni a battersi per questa seconda tesi, anche se purtroppo non è possibile nutrire illusioni. Perché il partito trasversale bancario si è riorganizzato potentemente, dopo gli sbandamenti della scorsa primavera, e a Montecitorio per gli onorevoli Tabacci e Saglia, La Malga e Gambini – la quaterna appartenente a partiti diversi che più ha spinto per la «riforma lunga» – si troverà contro un pattuglione di filobancari di complemento. L’ultima conferma, se ce ne fosse stato bisogno, è venuta la scorsa settimana, proprio sul Corriere della Sera. Al giusto e coraggioso editoriale di Francesco Giavazzi a sostegno di una riforma che incida sui conflitti d’interesse che gravano sulle banche – prestatrici e collocatrici di titoli, controllanti il risparmio gestito e Borsa Italiana spa e sinanco il capitale di Bankitalia che vigila su di loro – la decisione di chi fargli replicare è stata direttamente assunta dal vertice del sistema bancario italiano.
E quando si dice vertice si parla di un’aquila bicipite: Fazio da via Nazionale e Geronzi da via Minghetti. A via Solferino è stata così recapitata una piccata risposta, che come al solito raccontava la storiella secondo cui chi vuole cambiare le regole su antitrust e vigilanza bancaria intende solo regolare un conto personale con il governatore. L’autore era uno dei più prestigiosi storici della politica monetaria italiana, Francesco Spinelli. Ma era stato prescelto alla replica in quanto presidente di Bipop, la banca che Fazio ha affidato a Geronzi (e proprio in Parlamento il governatore, interrogato su quello scandalo, mentì asserendo che nessun altra banca italiana si era mostrata interessata a rilevarla, quando su tutti i giornali scrivemmo per settimane che istituti come la Popolare di Milano, per esempio, la volevano).
Carica che il Corriere ha fatto bene a mettere in calce all’articolo, per far capire bene ai lettori a quale titolo parlasse davvero l’autore: ma naturalmente chi aveva scelto come alfiere l’ottimo Spinelli non gradiva, e chiedeva figurasse solo il suo titolo accademico. Per fortuna Mieli e i suoi hanno tenuto duro.
Recriminare non serve però a molto, anzi a nulla. Berlusconi l’ha detto chiaro, nella sua conferenza stampa di fine anno, di non aver mai condiviso l’opinione che la riforma del risparmio fosse poi così urgente. Tanto è vero, ha detto, che dopo Parmalat non è successo nulla. A parte il fatto che default come quelli Giacomelli, Finmmatica e la crisi Impresilo non gli danno proprio ragione, fatto sta che in Italia per la globalità delle imprese medie e anche grandi – fanno eccezione solo le grandissime – per via della mancata riforma del risparmio nel 2004 si è disseccata l’intera possibilità di procacciarsi risorse sul mercato tramite emissioni obbligazionarie: scusate se è poco.
Conclusione. Berlusconi tenga d’occhio il calendario, perché gli si presenta un’occasione d’oro. Dal 17 gennaio al 22 febbraio parte in tutto il mondo la rinegoziazione dei titoli del debito pubblico argentino andati in default. La proposta finale del governo Kirchner è vergognosa e scandalosa. Offre solo il 30 per cento del valore nominale quando l’economia argentina ha ripreso a tirare, il ristoro offerto in casi di default nazionali precedenti era parecchio più rilevante, inoltre l’offerta di Buenos Aires è del tipo prendere o lasciare, visto che nel prospetto non c’è soglia di adesione minima perché la conversione abbia efficacia, e dunque chi non si accontenta si attacca al tram per sempre.
Ha ragione il direttore di Milano Finanza, serve un appello al premier. Consideri bene che il mezzo milione di risparmiatori italiani che ci hanno lasciato le penne rappresentano un milione e mezzo di voti abbondanti. Dunque, Berlusconi si metta alla testa di chi sostiene il no netto alla miniconversione lanciato dai comitati internazionali di obbligazionisti, lanci un’iniziativa diplomatica straordinaria su Buenos Aires, e ci abbini la benedizione alla riforma del risparmio approvata in parlamento davvero entro marzo. Ma dia retta: la faccia approvare nel testo «lungo», regole bancarie comprese.
I risparmiatori italiani traditi non vanno solo tutelati dal governo Kirchner che li vuole gabbare. Vanno anche vendicati delle banche italiane che quelle obbligazioni gliele hanno fatto comprare in massa. Oltre un quinto degli 88 miliardi di dollari di obbligazioni argentine emesse in tutto il mondo si concentra infatti nella sola piazza italiana, grazie alle nostre banche. Ci sarà un perché, se le banche degli altri paesi non hanno rifilato un simile bidone ai propri clienti, o no?
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