ROMA (WSI) – In un articolo di alcuni anni fa Umberto Eco calcolava, con paradossale ma oggettiva e inconfutabile precisione, il tempo da dedicare alla propria ricerca e alla propria specifica attività che rimane a uno studioso, in una giornata, detratte le ore destinate al sonno, ai pasti, alla toilette, al sesso, alle urgenze burocratiche, alla corrispondenza (magari solo al gentile rifiuto di inviti e sollecitazioni), alle telefonate, alle richieste – anche declinate, ma sempre con ingente spesa di tempo – di interviste o di risposte a pressanti domande di giornali, radio e televisioni sugli innumerevoli problemi del giorno, ai commenti – mesti o augurali – per la morte o i compleanni o gli allori o l’entrata in quiescenza di colleghi e di altre personalità illustri.
Non ricordo la cifra che risultava da quel computo accurato, ma si trattava di una minima frazione di tempo, certo insufficiente a qualsiasi approfondimento di qualsiasi ricerca o argomento. Ovviamente la porzione di tempo residuo è tanto più esigua quanto più vasta è la notorietà del bersagliato, che si trova a convalidare con la propria frenetica autodistruzione la verità in quella frase di Einstein, secondo la quale un ricercatore smette di far ricerca (ossia di essere se stesso) dopo la sua prima scoperta significativa, perché è costretto a ripeterla, variarla, aggiornarla, applicarla agli eventi e ai fatti più disparati, senza avere la libertà, l’aria, il tempo, l’agio necessari a ogni attività, a ogni ricerca di qualcosa di nuovo.
Quel calcolo di Eco darebbe risultati sempre comici ma ancor più allarmanti – e più gravi, per le conseguenze che implicano per la realtà del Paese – se fosse applicato all’attività dei politici, dalla quale dipende la vita del Paese: le leggi che lo governano, i problemi che lo assillano, le minacce che lo insidiano, la disoccupazione, la sanità, la sicurezza. Quante ore un politico – un deputato, un consigliere regionale o comunale, un ministro, un rappresentante di partito – può dedicare realmente allo studio dei problemi che incalzano il Paese e ai modi in cui risolverli o anche solo alle reali trattative politiche per organizzare il partito o stipulare alleanze con altre formazioni politiche?
Vi sono ad esempio innumerevoli, gravose ancorché ineliminabili e significative attività rappresentative, che assorbono sempre di più specialmente chi occupa una posizione autorevole e ufficiale: le ricorrenze, le cerimonie, gli incontri con tutte le forze e le categorie possibili e immaginabili, le inaugurazioni.
Tutto ciò è necessario e riveste pure un valore simbolico reale, ma la crescente inflazione di tali obblighi rituali esige e divora sempre più tempo, lasciandone sempre meno al reale lavoro politico, al quale rimane, di lavoro effettivo, qualche manciata di minuti frantumata da continue interruzioni.
Un ulteriore colpo di spugna, che cancella non il reale, bensì la possibilità di studiarlo e cambiarlo, è costituito dalla proliferazione dei talk show politici, dalle trasmissioni televisive consacrate alla politica. Non è in questione la loro qualità – buona, seria, farraginosa, faziosa, obbiettiva, supponente, chiassosa, a seconda dei casi -, ma la loro espansione cancerosa, che sembra occupare sempre più totalmente e dunque divorare, consumare, distruggere la politica concreta.
Partecipare a un talk show politico richiede tempo: il viaggio o anche solo la traversata del traffico della grande città; le inevitabili ritualità e attese prima dell’inizio; nelle ore precedenti, la messa a punto delle cose da dire; in certi casi l’ansante informazione su dati riguardanti il tema della serata, che non sempre, comprensibilmente, il leader o mini leader o esponente di una o dell’altra parte politica conosce, perché non si può conoscere tutto.
In quelle circostanze, non si è più sé stessi quanto piuttosto segretari di sé stessi. Nessuno prende parte a una trasmissione politica televisiva per portare un reale contributo, ancorché minimo, alla soluzione di un problema, ma soltanto perché bisogna esserci. Non per vincere, ma per non fare brutta figura, per non perdere.
Il risultato soddisfacente, anzi la meta agognata, in un talk show è lo zero a zero. Uno dei pochissimi risultati politici reali di un talk show è stata – sciaguratamente, dal mio punto di vista – la clamorosa affermazione di Berlusconi a Servizio pubblico, che ha ridato popolarità a lui e al suo allora dissestato partito e probabilmente, purtroppo, gli ha pure portato nuovi voti.
Una macchina divoratrice parassitaria di tempo e dunque intralcio allo studio dei problemi da risolvere sembra diventare pure il web, peraltro nato per comunicare e capace di permettere una straordinaria comunicazione, come è tante volte accaduto e ancora accade.
Ma pure il web sta diventando una fissazione solipsistica e maniacale, fonte di rapporti spesso astratti e irreali, che – anziché far conoscere il mondo grazie al computer – fa conoscere il computer invece del mondo, come nella famosa storia di quel tale che, quando gli mostrano la luna, non guarda la luna ma il dito che la indica.
Strumento di democrazia, il web può diventare un’assemblea pulsionale indistinta, che nega la democrazia ed è forse un sintomo rilevante di quella crisi della democrazia rappresentativa che sempre più ci sgomenta e che Tocqueville ha previsto con centocinquant’anni di anticipo, vedendo nell’America, culla e baluardo della democrazia, il laboratorio della sua degenerazione e dei rimedi a quest’ultima.
Le trasmissioni politiche televisive sono, in genere, condotte egregiamente e costituiscono un accattivante spettacolo per chi le guarda, probabilmente fra i più accattivanti fra quelli offerti dalla televisione. È una buona e bella cosa per chi la sera, dopo aver lavorato tutto il giorno – in ufficio, a scuola, in fabbrica, all’ospedale, nel negozio, alla ricerca di un impiego – ha bisogno di solleticanti distrazioni. Ma bisogna sapere che, così come un affascinante film o telefilm giallo non contribuisce a combattere la criminalità, un talk show politico non contribuisce, neanche indirettamente e alla lontana, ad aumentare la produttività, a migliorare l’assistenza sociale o a facilitare un accordo di governo. È una cosa simpatica per chi la guarda e sostanzialmente sterile per chi vi prende parte, come è sterile il crescente predominio, ormai necessario ma non perciò meno soffocante, del dire sul fare.
Un politico deve certo essere anche un attore, ma non solo un attore, altrimenti il tempo necessario per studiare la sua parte non gli lascia il tempo per accorgersi di ciò che sta accadendo intorno a lui.
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