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SULLA GEORGIA UNA COLOSSALE IPOCRISIA

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(WSI) – Se non ci fossero state aggressioni, violenze e brutalità dall’una e dall’altra parte, se non ci fossero state vittime innocenti, famiglie in esilio e un senso generale di precarietà che grava sull’intera area, verrebbe cinicamente da dire che l’attuale crisi georgiana è il frutto di una finzione, anzi di una colossale ipocrisia.

Quando si parla dell’Ossezia del Sud, essa viene definita una regione (o, se si è più scrupolosi, una repubblica) separatista della Georgia. Tutti, uomini di governo e mezzi di informazione, fingono di ignorare che l’Ossezia, come d’altronde l’Abhkazia, non è separatista ma è separata, che non aspira all’indipendenza ma che la ha dichiarata 16 anni fa, che si autogoverna pienamente e che se la Georgia, di cui solo nominalmente fa parte, vuole imporvi la propria autorità deve mandarci l’esercito, come il Presidente georgiano Saakashvili ha imprudentemente fatto l’8 agosto.


In Ossezia si è tenuto alcuni anni fa un referendum per avere conferma che gli abitanti preferissero l’indipendenza alla sovranità georgiana; è risultato che il 98% di loro preferivano l’indipendenza, cioè in pratica che preferivano restare quello che erano già. E’ stato detto (anche dal Consiglio d’Europa) che quel referendum non aveva valore perché era ammesso al voto solo chi aveva il passaporto dell’Ossezia. Appunto: l’Ossezia era già allora tanto indipendente da rilasciare i suoi passaporti.

Aveva anticipato che una nazione si basa non sull’etnia ma sulla cittadinanza. L’Abhkazia è sostanzialmente nella stessa situazione. Si autogoverna, ha il rublo come moneta e le residue forze georgiane che stazionavano nell’area meridionale del paese si sono ritirate poco tempo fa. Perché per quasi 20 anni nessuno, neppure la Russia che ne è sempre stata in qualche modo tutrice, ha affermato che Ossezia e Abhkazia sono di fatto indipendenti e le ha riconosciute come tali? Perché c’è voluta quasi una guerra perché il problema si ponesse sul piano internazionale?

Vi sono, credo, almeno due ragioni. L’una è di carattere generale e corrisponde a un modo di sentire istintivo, e se vogliamo anche nobile, delle opinioni pubbliche delle democrazie occidentali che finisce per influenzare anche chi le governa: che è di prendere parte, in simili casi, per il piccolo rispetto al forte. Nel caso della piccola Cecenia, il separatismo ceceno, che si opponeva alla grande e potente Russia, ha avuto subito la solidarietà dei mass media e dei politologi, oltre che delle associazioni umanitarie. Ossezia e Abhkazia sono anch’esse piccole, ma hanno la Russia che le sostiene, e quindi si parteggia per la piccola Georgia contro il suo grande vicino.

Se non ci fosse la Russia di mezzo, state sicuri che l’indipendentismo degli osseti e degli abhkazi riceverebbe il sostegno entusiastico di tutti i benpensanti e i neo-filosofi europei, a partire da quell’Henri-Bernard Levy che giudica invece innocente l’intervento georgiano dell’8 agosto perche ha fatto solo 47 morti. Il nome della Russia fa questo effetto. Venticinque anni di stalinismo e cinquanta di guerra fredda sono difficili da dimenticare.

Chi ci dice che la Russia di oggi, come quella di ieri, non voglia inghiottire non solo Ossezia e Abhkazia ma anche la stessa Georgia, o magari la Transdnistria e l’Ucraina? I russi, si sa, sono cattivi. E che Stalin fosse un georgiano nessuno se lo ricorda più. L’altra ragione, più razionale e meno emotiva, che ha relegato sinora nel cassetto il destino di Ossezia e Abhkazia, sta nel fatto che mettersi a discutere uno dei confini dei quindici stati nati nel 1991 dal disfacimento dell’Urss, rischia di aprire problemi simili in chissà quanti altri. La Russia per prima non l’ha voluto fare finora, memore tra l’altro del separatismo ceceno.

Un cattivo confine finisce così col rafforzarne altri. Ora però che il problema della Georgia mette in causa lo stato dei rapporti tra la Russia e la Nato, tra la Russia e l’Europa, sarebbe meglio che l’ipocrisia finisca e che si guardi alla sostanza delle cose senza far finta di non vedere che i confini della Georgia sono già cambiati. Chiedere il ritiro delle forze militari russe che sono entrate in Georgia durante questa crisi è sacrosanto. Ma limitarsi a condannare il riconoscimento unilaterale delle due repubbliche perché costituisce una violazione del diritto internazionale (come ha fatto abbastanza inutilmente il G8, ritornato per l’occasione a G7) non risolve un gran che e suona perfino un poco ipocrita nella bocca di chi ha riconosciuto unilateralmente il Kossovo.

Il nostro governo, a dire il vero, ha tenuto sinora in questa spinosa vicenda e nella sagra di luoghi comuni che l’ha circondata, un atteggiamento più realistico e moderato di altri. La Farnesina aveva pensato, già prima dei fatti di agosto in Ossezia, a una conferenza sul Caucaso da tenersi in ottobre a Roma. Se questo progetto si manterrà, e quale valore una simile conferenza potrebbe assumere, è cosa da vedere. Intanto Sarkozy, come presidente di turno dell’Ue, ha riunito un summit europeo per lunedì prossimo. Tutti ci auguriamo che l’Unione Europea abbia una posizione unanime. Ma auguriamoci anche che non si mettano ancor più a rischio i rapporti con la Russia a causa di un problema che è più formale che reale e nel quale non sono certo solo i russi ad avere dei torti.

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