Questo articolo e’ stato pubblicato nell’ultimo numero di “Affari Esteri”, la rivista diretta da Achille Albonetti. Sergio Romano e’ editorialista del “Corriere della Sera”, “Panorama” e “La7”. Il contenuto esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Nelle scorse settimane i russi hanno letto il discorso con cui il Vicepresidente americano Richard Cheney ha duramente attaccato il loro Paese e hanno appreso, qualche giorno dopo, che gli Stati Uniti intendono installare in Europa una base di missili antimissili, simili a quelli che hanno già collocato nelle estreme provincie settentrionali del continente americano. Ma ciò che li ha maggiormente colpiti sono due circostanze, a cui i commentatori occidentali hanno prestato generalmente scarsa attenzione.
Il discorso è stato pronunciato a Vilnius, capitale della Lituania, un tempo Repubblica federata dell’Unione Sovietica. E i missili, secondo notizie di stampa, sarebbero installati in Polonia, un Paese che ha fatto parte per più di cinquant’anni del blocco sovietico e che la Russia ha spesso trattato con un combinazione di paura, diffidenza e arroganza. Se un discorso antirusso viene pronunciato a Vilnius e una base antimissilistica è installata in Polonia, i due avvenimenti, visti da Mosca e Pietroburgo, assumono i caratteri della provocazione.
È probabile che durante le settimane successive le quotazioni di Putin, nel giudizio dei suoi connazionali, siano considerevolmente salite. Ed è possibile che queste considerazioni abbiano agli occhi degli americani una modesta importanza. Ma credo che i Paesi dell’Unione Europea, invece, abbiano interesse a chiedersi se le molte critiche mosse alla Russia negli ultimi anni (dalle rivoluzioni di Tbilisi e Kiev alla stretta energetica dello scorso inverno) non siano il risultato di una singolare ignoranza.
Abbiamo legittimamente criticato il Governo russo per il suo stile autoritario, per il suo spregiudicato uso della magistratura contro i dissidenti e gli oligarchi, per certi aspetti della sua politica energetica. Ma non abbiamo fatto il benché minimo sforzo per cercare di comprendere se dietro questi aspetti della politica russa non vi siano esigenze e obiettivi di cui è utile essere consapevoli.
Quando succedette a Boris Eltsin, Putin ereditò uno Stato corrotto, governato per procura da un drappello di oligarchi che si erano appropriati delle risorse nazionali, insidiato dalla criminalità, dalle spinte secessioniste di alcune Repubbliche periferiche e da baroni che governavano le Province come altrettanti feudi. Non sappiamo quale fondamento abbiano le tesi di Boris Berezhovskij secondo cui negli attentati ceceni del 1999 vi sarebbe lo zampino dei Servizi di sicurezza russi, interessati a giustificare in tal modo l’inizio di una nuova guerra. Ma sappiamo che la Cecenia era divenuta una sorta di Somalia caucasica, corteggiata dai talebani dell’Afghanistan e utilizzata, per i loro traffici, da circuiti affaristici e criminali.
I principali obiettivi di Putin, da allora, sono la rifondazione dello Stato russo e la modernizzazione della sua economia. Li persegue con mezzi alquanto discutibili, ed è giusto quindi deplorare il trattamento inflitto a Khordokovskij, il migliore degli uomini d’affari che hanno creato la loro personale fortuna dopo il collasso dello Stato sovietico. Ma è bene ricordare che gli oligarchi avevano comprato le aziende statali con il risparmio dei loro concittadini, pagato interessi irrisori, restituito, grazie all’inflazione galoppante di quegli anni, una piccola parte del denaro ricevuto, usato la loro colossale ricchezza per comprare banche e mezzi d’informazione con cui intendevano influire sul Governo e consolidare il loro potere.
Il modo con cui Putin li ha espropriati dei loro beni ha suscitato critiche politiche ed economiche, soprattutto fra coloro che credono nelle virtù dell’economia liberale e del libero mercato. Ma è davvero possibile che il leader di un Paese semisviluppato possa privarsi della sola risorsa che gli consente di costruire infrastrutture, rinnovare l’apparato industriale, mitigare con la creazione di un nuovo Welfare le miserabili condizioni di vita di una parte della popolazione russa?
Se la Francia non intende rinunciare al controllo della società Suez e gli spagnoli difendono la loro industria elettrica contro le ambizioni tedesche, dovrebbe Putin disinteressarsi della principale risorsa nazionale? Non credo che il leader russo voglia ricattare i suoi clienti. Ma la Russia non intende limitarsi a recitare la parte del lattaio, che deposita il suo latte ogni mattina di fronte all’uscio del cliente. Vuole entrare come protagonista nel mercato dell’energia e partecipare in veste di azionista alle società che assicurano la distribuzione del gas in Europa.
Vorremmo, ripeto, che Putin agisse con altri mezzi e criteri. Ma non tocca a noi governare 17 milioni di chilometri quadrati o affrontare i problemi demografici di un Paese che perde ogni anno 700 mila abitanti. E non tocca a noi tenere insieme una società multinazionale, circondata da piccoli vicini, spesso politicamente instabili, dove Washington, in nome della democrazia, è presente con basi, istruttori militari e finanziamenti a organizzazioni non governative, che hanno avuto una parte considerevole in alcune elezioni degli scorsi anni.
L’amore della democrazia non ha impedito al Vice¬presidente Cheney, dopo il discorso di Vilnius, di visitare il Kazachistan, un Paese dove il Presidente è eletto ormai da parecchi anni con il 90 per cento dei voti. E non ha impedito al Presidente Bush di ricevere alla Casa Bianca il Presidente dell’Azerbaigian, figlio ed erede di un esponente della vecchia nomenklatura sovietica che fu per molti anni l’uomo del Kgb a Bakù.
Un’osservazione conclusiva. L’Unione Europea ha interessi alquanto diversi da quelli degli Stati Uniti. Dal rapporto con Mosca dipendono la nostra sicurezza, le nostre forniture energetiche, il nostro sviluppo economico, una più efficace lotta contro il terrorismo, la criminalità organizzata e l’immigrazione clandestina. Ma abbiamo mandato a Mosca, sinora, messaggi contraddittori. Nel dicembre del 2004, all’epoca della rivoluzione arancione, abbiamo permesso che la politica estera europea fosse delegata alla Polonia. E più recentemente abbiamo dato la sensazione di accettare senza battere ciglio che gli Stati Uniti si servissero del territorio di un membro dell’Unione Europea (ancora la Polonia) per una iniziativa militare, che i russi considerano, con qualche ragione, ostile. Mentre la Russia di Putin toglie agli oligarchi il controllo delle maggiori risorse del Paese, Bruxelles dovrebbe togliere ai nuovi membri dell’Unione il diritto di fare politica estera con gli americani dietro le sue spalle.
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