Ha dello straordinario: il disavanzo pubblico americano, nonostante tutte le previsioni contrarie, comprese quelle del Governo, sta calando precipitosamente. Da circa 430 miliardi di dollari stimati per il 2006, il deficit potrebbe in realtà scendere a 220 miliardi, poco più del 2 per cento del Pil americano e sotto il 2 nell’esercizio del 2007. Le spese del Governo federale ammontano a circa 2.300 miliardi di dollari, le entrate a 2.100 circa. Tra il 2002 e il 2005 il deficit Usa oscilla tra il 5,2 e il 4 per cento del Pil, cioè circa 450-500 miliardi di dollari l’anno. Miracolosamente, quest’anno il disavanzo si è più che dimezzato e secondo i nuovi aggiornamenti dell’amministrazione dovrebbe scendere all’uno per cento entro il 2010. Contribuiscono a questa imprevista e ben accolta notizia sia fattori congiunturali, cioè il forte tasso di espansione dell’economia americana che comporta un aumento delle entrate anche grazie a un buon andamento degli utili delle imprese; sia fattori legislativi e cioè la decisione del Congresso di imporre il rimpatrio degli utili delle imprese americane tenuti all’estero e la loro tassazione. Infine, giova anche una contabilità pubblica un po’ particolare: circa 85 miliardi di dollari di spese militari aggiuntive e 45 miliardi richiesti per la ricostruzione di New Orleans sono stanziati fuori bilancio. Comunque vadano le cose, al momento delle elezioni di novembre il Governo potrà trionfalmente confermare i tagli delle imposte sui redditi personali già concesse due anni fa e un ritorno alla stabilità di bilancio. Sarà possibile anche rinviare, forse sine die, futuri aumenti dei tassi d’interesse considerati sino a ieri indispensabili per finanziare il deficit. Certo molto potrebbe cambiare nel prossimo anno, soprattutto a causa del previsto rallentamento dell’economia americana e della riduzione del flusso dei fondi dall’estero. Ma per il breve periodo almeno, il problema del deficit è messo alle spalle. Intanto, se da un lato le Borse cedono e scendono ai minimi dell’anno, la crisi mediorientale sta avendo l’effetto opposto sui prezzi petroliferi, che superano i record dell’anno, con il Brent salito a 76,8 dollari al barile e il Wti a oltre 78 (un aumento dell’8 per cento in un mese). L’acuirsi delle tensioni comporta un aumento più o meno generalizzato dei prezzi delle materie prime, anche se gli indici generali, fatta eccezione per il petrolio, rimangono ancora sotto il livello dello scorso maggio. Emerge però un fatto nuovo: per la prima volta nelle ultime due settimane le principali Banche centrali (tra cui la statunitense Fed, l’europea Bce e la giapponese Boj) esprimono una preoccupazione crescente e sempre più evidente circa i crescenti rischi inflazionistici connessi al rialzo dei prezzi petroliferi e in generale delle materie prime.