Un unico termine è veramente appropriato per descrivere la situazione di ieri sui mercati internazionali, una situazione in cui tutto è andato giù, le azioni come i titoli di stato, il petrolio come l’oro, le piazze asiatiche come quelle europee e americane. Si tratta di un vocabolo che i mezzi di informazione usano malvolentieri per le implicazioni negative che evoca. Questo termine è «panico», un senso misterioso di sgomento a tutto campo, una voglia di scappare a qualsiasi costo che fa abbandonare, a chi ne è vittima, qualsiasi pretesa di razionalità.
Ebbene, per diverse ore, ieri, gran parte degli operatori finanziari di tutto il mondo è stata vittima di un gigantesco attacco di panico. Quel che più colpisce non è l’entità della caduta dei listini (molto rilevante, ma ormai ci siamo abituati) bensì la qualità di tale caduta, il senso di confusione, l’incapacità di esprimere per più di dieci minuti comportamenti coerenti, la tendenza ad accomunare, in maniera isterica, titoli «buoni» e «cattivi» in un unico grande fascio da bruciare sul falò della caduta dei listini.
Come è spesso avvenuto negli ultimi mesi, sperabilmente già oggi e nei prossimi giorni le angosce si placheranno e rialzi temporanei attenueranno, o addirittura cancelleranno, le cadute di ieri. Questa auspicabile pausa – perché solo di una pausa verosimilmente si tratta – lascerà tempo per pensare con un minimo di pacatezza ai rimedi alla grave situazione dell’economia e della finanza; una situazione, tanto per intenderci, che può avere su un Paese come l’Italia effetti ben più gravi di quelli, già molto seri, delle attuali disfunzioni politiche.
E’ prima di tutto necessario constatare che ci troviamo di fronte a un fallimento generalizzato di tutte le politiche anticrisi. L’attacco di panico di ieri si è infatti verificato immediatamente dopo l’annuncio della Fed, la banca centrale americana, dell’«operazione twist», ossia della vendita da parte della stessa Fed di una grande quantità di titoli a breve e del contemporaneo acquisto di titoli a lungo termine, che infatti sono saliti di prezzo mentre parallelamente il loro rendimento è calato. In questo modo la Fed spera(va) di stimolare gli operatori a uscire dal circuito finanziario i cui rendimenti erano stati abbassati per investire nell’economia reale e attivare la crescita. Ha probabilmente ottenuto l’effetto contrario.
L’ennesimo rimedio della Fed, che fa seguito a due ondate di immissione di nuova moneta in enormi quantità, i cosiddetti quantitative easing, non sta funzionando, come non sta funzionando nessuna delle misure che, dal 2009 a oggi, sono state tentate sulle due sponde dell’Atlantico per combattere la crisi. C’è una generale impressione di impotenza, di cui possono essere ben prese a simbolo le norme di Basilea 3 che regolano l’attività delle banche e le obbligano a iperproteggersi e proprio per questa protezione eccessiva fanno sì che la liquidità non riesca a trovare la strada dell’economia. E nel frattempo si moltiplicano i sintomi dell’insofferenza dell’opinione pubblica, come dimostra – ultimo episodio tra tanti – l’«occupazione», alcuni giorni fa, di Wall Street, la strada in cui ha sede la Borsa americana, simbolo del capitalismo finanziario, da parte di un numero non piccolissimo di manifestanti.
La consapevolezza di non avere una ricetta dovrebbe indurre governi e banche centrali ad atteggiamenti più pragmatici, mentre invece avviene l’esatto contrario: le agenzie di rating rendono più negativo il giudizio sul debito pubblico di un Paese o sul bilancio di una banca ed ecco che mercati e governi immediatamente si adeguano con conseguenze che generalmente peggiorano la situazione di quel Paese o di quella banca. Se la tendenza prosegue immediatamente si chiede a quel Paese di varare nuove misure. Si studiano con colossale indifferenza provvedimenti che colpiscono duramente non solo i bilanci famigliari ma i progetti di vita di milioni di persone sulla base dell’andamento di pochi giorni o poche settimane delle quotazioni dei titoli pubblici di quel Paese.
Il vero coraggio che oggi i cittadini di tutti i Paesi colpiti dalla crisi devono richiedere ai loro governanti è quello di sottrarsi almeno parzialmente alla tirannia anonima del mercato mondiale. Il che significa sottoporre i mercati e gli operatori a regole che riducano la carica distruttiva, che questi mercati purtroppo hanno dimostrato di possedere senza distruggerne il meccanismo che invece presenta numerosi aspetti positivi; regole che limitino il potenziale speculativo senza alterare il funzionamento base dei mercati finanziari.
Un esempio di sviluppi in questa direzione viene dalla Gran Bretagna, dove il governo ha introdotto una nuova legge che dovrebbe separare, all’interno delle banche, il circuito speculativo dal normale circuito del credito. Il circuito speculativo dovrebbe poi essere sottoposto a norme più severe: non si può riservare la severità ai cittadini normali e poi pensare tranquillamente che al mondo della finanza internazionale tutto debba essere permesso.
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