Cheap, avrebbe detto Giovanni Agnelli. A buon mercato, traduciamo noi, con l’aggravante del guardonismo e del servilismo.
Di che parliamo? Lo sapete. Non delle buone biografie, rievocazioni, interviste che abbiamo pur letto in questi giorni di lutto per la morte del presidente d’onore della Fiat. Non delle poche testimonianze misurate, capaci di compassione e di equilibrio nel giudizio: la percezione della morte è stata oggetto di storia annalistica, ma la morte in sé ha un suo significato classico, probabilmente immutabile, che non dovrebbe prestarsi ai ghirigori e alle sveltine dell’autopromozione.
Sia dunque lode ai tanti che hanno saputo sottrarsi alla sua banalizzazione, perfettamente esemplificata da quell’orrore che sono gli applausi (e ora anche i fischi) nel corso delle esequie funebri, ultimo luogo del silenzio espugnato dai barbari. Siano invece lasciati alla loro frustrata meschinità i numerosi stolti che, per iscritto o agli orali televisivi, hanno compiuto la più spregevole delle operazioni ideologiche: legarsi al ricordo di una persona che se n’è andata per regolare obliquamente qualche conto con chi resta.
C’è voluto Shakespeare per descrivere gli atroci sentimenti di vendetta di Antonio, nella forma divina della dissimulazione ironica (“ma Bruto è un uomo d’onore”), a noi è rimasto solo Giorgio Bocca. Che tristizia l’orgia di piccolo pettegolezzo e la giostra degli aggettivi, dentro e tra le righe, con cui un’Italietta che è sempre vissuta pigramente all’ombra dell’establishment ha cercato di proiettare su quel bel tipo che era Agnelli, ostico cinico e controverso, il fantasma della propria sconfitta e della propria eterna, furbetta subalternità. Centinaia di righe velenose per spiegare che quelli erano altri tempi, un altro stile (“il mio stile” restava nel sottotesto), mentre adesso con i nuovi arrivati, signora mia, che orrore. Un’esplosione di narcisismo per conto terzi, in cui l’agnellità e i protocolli regali della casa torinese sono stati piegati a una piccola operazione di delegittimazione ideologica e di marketing pseudopolitico a miglior gloria di carriere vissute con una nevrosi da veri parvenus.
Agnelli, che tutto era ma non una persona impacciata dalla stupidità, forma suprema della volgarità, aveva capito il fenomeno Berlusconi e la tumultuosa nuova Italia partorita dalle avventure del Cav.
Agnelli non aveva bisogno di sembrare uno del giro di Agnelli. Uomo elegante fino alla cattiveria, se avesse visto il presidente del Consiglio scendere da una Audi al suo funerale, ne avrebbe chiesto conto al management della Fiat, non all’ufficio acquisti di Palazzo Chigi.
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