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Se tutti avessero numero obesi degli Usa, biomassa crescerebbe +20%

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New York – Per la verità, a fare impressione nella sfilza di numeri e percentuali che corredano lo studio di un gruppo di ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine, pubblicato sulla rivista BMC Public Health – non è tanto il «peso» dell’umanità che grava sul nostro vecchio pianeta: 287 milioni di tonnellate. Che corrispondono pressappoco, tanto per dare un’idea, a 5400 Titanic.

A colpire e far riflettere è, piuttosto, da una parte, il fatto che una ragguardevole quota – pari a circa diciannove milioni del totale – sia riconducibile ad adipe e pinguedine dei terrestri. I sovrappeso (con una massa corporale oltre 25) rappresentano il 5% del totale. Gli obesi (indice BMI oltre i 30) l’1,2%.

Dall’altra, gli impietosi rapporti della tabella dei Paesi più «leggeri» e più «pesanti». Un terzo circa delle donne e degli uomini pingui o indiscutibilmente obesi sono concentrati nell’America settentrionale e in Canada, dove il peso medio corporeo, calcolato sulla base di dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità, è di circa 80,7 chilogrammi. Per dire, in Asia, dall’altra parte del Pacifico, è di circa 57,7. Così, quel continente, col 61 per cento della popolazione globale, grava solo per un modesto 13 per cento sul peso del mondo, mentre, al contrario, Stati Uniti e Canada, partecipano per un terzo col 6 per cento della popolazione.

Eritrea, Vietnam ed Etiopia stanno – manco a dirlo – su un versante opposto a quello degli Usa. Sono i Paesi «leggeri» – (non necessariamente poveri però, come ad esempio il Giappone) – a salvarci. Se il resto del mondo avesse lo stesso indice di massa corporea (Body Mass Index) degli americani sarebbero dolori per il pianeta: il supplemento di peso graverebbe sulle risorse globali come un miliardo in più di bocche da sfamare.

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L’allarme, questa volta, riguarda la salute del pianeta, e non, come da ricorrenti richiami dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’inquietante escalation delle patologie – malattie cardiovascolari in prima fila – legate al grasso in eccesso e ai «chili di troppo», che fanno lievitare la spesa sanitaria dei diversi Paesi e autorizzano le più minacciose previsioni su un futuro carico di malanni e cattiva salute, per colpa di diete squilibrate, sedentarietà, sconsiderati «stili di vita» propri del mondo occidentale, ricco e spensieratamente consumista.

Grassi e obesi non camminano sulla terra leggeri, per usare una metafora. «Pesano» e non solo in termini di spesa sociale. Consumano di più (cibo, acqua, energia) e producono un volume di rifiuti la cui massa è superiore a quella dei beni materiali utilizzati e che finiscono nelle stesse riserve delle risorse naturali: fiumi, mare, suolo, nell’aria. Contribuendo così all’aggravarsi dell’usura delle risorse naturali, e mettendo a rischio la sostenibilità ambientale.

Quando ci preoccupiamo di quest’ultima, è, dunque, il sovrappeso (e l’eccesso dei consumi) che dovremmo chiamare in causa, e non solo, come avviene da sempre, l’aumento della popolazione, cui concorrono soprattutto i Paesi poveri. Se l’economista e demografo Thomas Robert Malthus, autore di uno dei più influenti studi di tutti i tempi, «Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società», pubblicato due secoli fa, tornasse in vita, avrebbe di sicuro qualche sorpresa nel constatare che non è solo il numero dei «commensali» al pur «abbondante banchetto della natura» a determinare lo squilibrio tra popolazione e risorse, grandi, ma non illimitate, sostengono i neomalthusiani di oggi, denunciando i ritmi di crescita. Il responsabile della ricerca, professor Roberts, insiste, in tutte le interviste, sulla necessità di tenere conto dell’obesità, insieme al sovraffollamento: «Noi puntiamo spesso il dito contro le povere donne africane che hanno troppi figli, ma dobbiamo anche considerare il “fattore grasso”. Fanno entrambi parte della stessa questione: il superamento dei limiti del pianeta Terra». Come non dargli ragione?

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