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SE ENTRA IN CRISI IL COMMERCIO MONDIALE

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Alla vigilia della sua quinta conferenza ministeriale, il Wto ­ World Trade Organization ­ che alla sua costituzione nel 1995 fu visto come coronamento di una governance economica globale, si trova praticamente in una situazione di empasse.

Il tentativo estremo dell’Unione Europea e degli Stati Uniti di creare i presupposti per la ripresa delle trattative sulla liberalizzazione del settore agricolo, giunte ad una fase di stallo, sembra essersi ritorto loro contro, visto che i paesi in via di sviluppo hanno criticato aspramente le due superpotenze commerciali per essere tornate sulle posizioni che avevano ai tempi dell’Uruguay Round (1984-96), avendo stipulato degli accordi sottobanco senza la partecipazione di alcuno degli altri 144 paesi membri dell’organizzazione.

Brasile, India e Cina ­ Paesi volani dell’economia del mondo in via di sviluppo ­ sono prontamente intervenuti con un documento in cui si chiede che europei e americani la smettano di menare il can per l’aia e riducano drasticamente la portata di quelle agevolazioni che consentono di immettere sui mercati mondiali enormi quantità di cereali e di carni a basso prezzo, escludendo così dai giochi centinaia di migliaia di agricoltori dei Paesi in via di sviluppo.

Le trattative mirate a subordinare i diritti di proprietà intellettuale alle esigenze di salute pubblica sono giunte a un punto morto, in quanto gli Stati Uniti non intendono scostarsi dal principio secondo cui la parziale liberalizzazione dei brevetti andrebbe limitata soltanto laddove si tratti di farmaci contro Hiv-Aids, malaria e tubercolosi, in aperta sfida alla dichiarazione della quarta conferenza ministeriale del Wto tenutasi nel 2001 a Doha, la quale privilegia chiaramente le questioni di salute pubblica rispetto ai diritti di proprietà intellettuale.

Non si è registrato alcuno spostamento nelle trattative intese a portare sotto la giurisdizione del Wto le questioni riguardanti gli investimenti, le politiche di concorrenza, la trasparenza degli appalti pubblici, gli scambi agevolati in ambito commerciale, che Bruxelles e Washington hanno interpretato come centrali alla Dichiarazione di Doha. In effetti, a tutt’ oggi non si è giunti a un punto di accordo sul fatto se esistano o no i presupposti formali per un avvio delle trattative.

Alcuni osservatori fanno notare come stiano venendo a galla quelli che sono i tre fattori principali che hanno determinato il fallimento della terza conferenza ministeriale di Seattle, del dicembre 1999: la crisi del settore agricolo Ue-Usa è nuovamente in primo piano, i Paesi in via di sviluppo sono più risentiti che mai, e la società civile si sta mobilitando. Il fattore società civile non va assolutamente sottovalutato.

Seppure non si disponga di dati certi, non è escluso che a Cancun possa convergere da tutto il mondo una folla che potrebbe raggiungere le 15mila persone. Senza escludere la possibilità che un certo numero di Zapatisti, ovvero appartenenti all’organizzazione di insurrezionalisti armati provenienti dalle comunità paesane indigene del Chiapas, nel sud del Messico, possano aggregarsi alla contestazione, trasformando così la conferenza in un’occasione di ampia protesta nazionale.

La travagliata situazione che il Wto sta attraversando altro non è che il prosieguo della crisi istituzionale apertasi a Seattle, nel dicembre 1991, come conseguenza dell’opposizione espressa da alcuni gruppi della società civile alla tendenza dello stesso Wto di subordinare gli aspetti più critici della vita sociale agli interessi delle grandi realtà commerciali.

La conferenza di Seattle non ha visto realizzare alcuna riforma; c’è stata soltanto, sulla scia degli eventi dell’11 settembre, una dichiarazione imposta di fatto ai Paesi in via di sviluppo da Usa e Ue con cui si dava mandato alla quarta conferenza ministeriale di Doha, Qatar, prevista per il novembre 2001 di condurre una serie limitata di trattative. Comunque il cosiddetto Doha Round è finito ben presto in un nulla di fatto. La crisi istituzionale del Wto è di per sé un riflesso di una difficoltà ben più profonda e generale, vale a dire quella del progetto globalista di un’integrazione accelerata della produzione e dei mercati.

La crisi finanziaria asiatica del 1997 ha delegittimato uno dei capisaldi del progetto globalista, secondo cui la liberalizzazione degli scambi commerciali avrebbe dato impulso alla prosperità economica. Poi c’è stato il crollo dei mercati azionari del marzo 2000, che ha avviato una fase recessiva e deflazionistica di portata globale determinata sia dagli eccessi speculativi del capitale, sia dalla superproduzione mondiale.

Di fronte a una crescente disoccupazione e a un rallentamento della crescita economica, le élite dell’economia europea e americana hanno perso sempre più di vista il progetto di un’economia globale integrata, per spostarsi verso politiche mirate a tutelare gli interessi del capitalismo nazionale o regionale.

Con la sua sfacciata difesa dei capitali americani investiti in società finanziarie, esemplificata dalla posizione assunta nei riguardi dei diritti di proprietà intellettuale in un contesto commerciale nonché nel campo della salute pubblica, l’economia unilaterale di Bush molto probabilmente aggraverà sia la crisi del progetto globalista, sia quella delle istituzioni multilaterali cui ci si era appoggiati per portare avanti il programma di globalizzazione.

Con l’Ue e gli Usa in disaccordo su tutta una serie di tematiche, è diventato loro assai più difficile dare corpo a una strategia coordinata finalizzata a dividere e intimidire, nell’ambito del Wto, i Paesi in via di sviluppo sulle questioni di comune interesse per i due poli del capitalismo, come ad esempio l’imposizione da parte dello stesso Wto di quell’accordo sugli investimenti che i Paesi in via di sviluppo hanno così strenuamente contrastato.

Nonostante le differenze tra Usa e Ue si facciano via via più marcate, è sempre ancora possibile una loro convergenza mirata a convincere i Paesi in via di sviluppo ad approvare a Cancun nuove iniziative nel campo degli scambi commerciali e della loro liberalizzazione. Tutto induce a temere, però, che assisteremo probabilmente a una conferenza ministeriale da cui non uscirà alcun accordo che porti a compiere significativi progressi verso la liberalizzazione degli scambi, e che riprodurrà la stagnazione seguita alla conferenza di Ginevra.

Per i Paesi in via di sviluppo, cui si impone di aprire i propri mercati o cedere il controllo a Washington e al Wto di aree fin qui àmbiti di competenza esclusiva delle politiche nazionali ­ vedi investimenti e concorrenza ­ l’esito migliore di una conferenza ministeriale sarebbe quello di un suo fallimento o comunque di un suo scarso successo. Darebbe infatti loro respiro per organizzare la propria manovra difensiva, e consentirebbe sia a loro che alla società civile di invertire il corso di quel processo di globalizzazione indotto dal mondo imprenditoriale che persino il portavoce del libero scambio The Economist vede come minaccia più che concreta al futuro del capitalismo a causa degli «eccessi» del capitale globale.

*Walden Bello e’ docente di Sociologia e Amministrazione Pubblica presso la University of the Philippines, e direttore esecutivo del Focus on the Global South con sede a Bangkok.

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Traduzione di Maria Luisa Tommasi Russo. Pubblicato per gentile concessione de L’Unita’.

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