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(WSI) – C´è un numero che, in queste ore tumultuose, dopo il no al referendum francese, Tesoro, Banca d´Italia e chiunque sappia quali sono le prove decisive della finanza pubblica italiana spia con crescente nervosismo. Il normale cittadino lo trova, giorno per giorno, seppellito nelle tabelle dei giornali specializzati. Gli operatori lo hanno in evidenza sui loro monitor.
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Quel numero è lo “spread”, il differenziale fra i tassi sui titoli di Stato italiani (più precisamente i Btp decennali) e i “Bund”, i loro equivalenti tedeschi. E´ l´indicatore del rischio-paese: quel numero misura la diversa percezione che i mercati hanno del rischio di investire in titoli italiani, rispetto a quelli tedeschi. Più alto lo spread, maggiore il costo del debito pubblico italiano. E, con la montagna del debito pubblico italiano, far salire gli interessi da pagare, per un bilancio già all´emergenza, significa aprire giornate buie. Ieri, questo termometro era a quota 22 punti: sui suoi titoli, Roma paga lo 0,22 per cento in più di Berlino.
Può sembrare molto poco. Prima di entrare nell´euro, il termometro segnava 450: fra Bund e Btp il differenziale era intorno al 4,5 per cento. C´è voluta la camicia di forza (e di sicurezza) dell´euro per riportare lo spread ad uno scarto minimo. Ancora nel 2001, all´alba del governo Berlusconi, il differenziale era superiore allo 0,40 per cento. L´euro e le difficoltà della stessa finanza pubblica tedesca – anch´essa alle prese con Maastricht – lo hanno via via limato. Ma, in finanza, ieri e l´altro ieri non contano. E, oggi, il termometro indica cattiva salute. Ancora a novembre, lo spread sembrava quasi azzerato: aveva toccato lo 0,8 per cento. Oggi, è quasi triplicato, toccando una quota che non raggiungeva più dal novembre 2002: «22 è un numero molto alto» osserva Angelo Drusiani, capo del mercato obbligazioni per la Albertini Sgr.
E´ anche un numero del tutto provvisorio. Non solo perché le quotazioni, sui mercati, cambiano giorno per giorno, ma perché, ieri, le grandi piazze come New York e Londra erano chiuse: solo oggi si avrà un´idea più precisa di come la finanza internazionale valuta la situazione italiana. Da questo punto di vista, la buona notizia di ieri, paradossalmente, non è un buon segnale. L´asta dei nuovi Btp italiani è andata bene, con prezzi in rialzo e rendimenti, dunque, in calo. Un risultato inatteso, in una giornata in cui i titoli pubblici europei si sono comportati, dopo la mazzata del referendum, in modo esattamente opposto. Ma la spiegazione, secondo Drusiani, è semplice: “con uno spread così largo, i titoli italiani sono interessanti”.
Secondo operatori come Drusiani, è difficile che, a bocce ferme, il differenziale con i Bund si allarghi ancora molto: “Quota 25 è una barriera, una sorta di soglia psicologica”. Ma bocce ferme significano l´euro e l´implicita assunzione che, all´interno della stessa area monetaria, sotto l´ombrello della stessa Banca centrale europea, i differenziali di rischio siano, nei fatti, drasticamente contenuti. Tuttavia, con l´Unione squassata dai terremoti dei referendum, e i parametri di Maastricht, che blindavano la virtuosità delle finanze pubbliche europee, indeboliti dalle convenienze politiche dei grandi paesi, l´area euro può apparire un bastione assai meno monolitico di ieri.
Al mondo degli hedge funds e degli speculatori non sfugge la potenzialità di profitti che aprirebbe un indebolimento dei titoli dei paesi più fragili (come l´Italia). Se il manager di un hedge fund vende allo scoperto titoli portoghesi, comprando contemporaneamente titoli francesi, guadagna nel momento in cui i tassi d´interesse portoghesi salgono rispetto a quelli francesi: il prezzo del titolo portoghese che adesso deve comprare, infatti, si sarà abbassato rispetto al titolo francese che aveva in portafoglio. Il punto è che se una massa sufficiente di speculatori si muove in questa direzione, vendendo i titoli portoghesi e comprando i francesi, può determinare i movimenti dei prezzi che li farà guadagnare.
Il termine tecnico per questa operazione è “allargamento dello spread”. Ma, a Londra, la chiamano “operazione spacca euro”.
Gli appetiti degli speculatori si sposano con i dubbi di commentatori anche autorevoli. Sul Financial Times, Martin Wolf ha recentemente sottolineato l´apparente irrazionalità di spread così limitati sui titoli pubblici dell´eurozona. «Gli investitori – osserva – evidentemente credono che non solo l´unione monetaria sia inassaltabile, ma anche che ogni Stato creditore sia virtuoso». Oppure, ancora, che, alla fine, se esplode un´emergenza, ci penserà la Banca centrale europea a salvare chi rischia di affogare. «Questo – dice Wolf – non è assolutamente plausibile».VDalla parte di Wolf ci sono le parole di Jean Claude Trichet, il presidente della Bce, in una conferenza stampa di qualche settimana fa: «Il mercato è certamente capace di discriminare fra buoni e cattivi debitori e sarebbe un grosso errore dire che questa disciplina del mercato non esiste».
Più che contare sulla ciambella di salvataggio, insomma, è meglio adoperarsi perché la nave non imbarchi acqua. Se Unione europea ed euro entrassero in crisi, l´Italia sarebbe fra quelli che paga prima e di più.
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