Società

SCIOGLIAMO LA CONFINDUSTRIA

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E se sciogliessimo la Confindustria? D’accordo. Se a Londra nessuno si sogna di dedicare alla successione di sir John Egan, il presidente della British Confederation of Industry, le paginate che da un anno qui si sprecano per la successione ad Antonio D’Amato, è perché a Londra c’è stata Margaret Thatcher.

Persino il socialismo lì è nato dai padroni, era uno di loro, Robert Owen, a presiedere il primo congresso della Trade Unions nel 1833. Se negli Stati Uniti nessuno neppure ricorda il nome del presidente protempore della Business Roundtable, è perché essa associa solo i capi azienda delle maggiori imprese americane per oltre 10milioni di dipendenti, ma il lobbying sul Congresso ogni azienda lo fa scegliendo i candidati da finanziare. Ma da noi? Possibile che nessuno ammetta che un confronto sull’avvenire di Confindustria così opaco e tanto aspro, lungo nel tempo e che rifugge da ogni programma contrapposto, dice degli industriali qualcosa di più profondo del bilancio di una presidenza tanto forte alla nascita e discussa nei suoi esiti?

Tutti hanno riferito delle consultazioni milanesi dei tre saggi di Confindustria, del no di Luca di Montezemolo alla soluzione-tandem lanciata dagli industriali di Bergamo. Che poi sarebbe Montezemolo per l’estero, Tognana per l’interno. E magari perché no Giancarlo Elia Valori ai rapporti con la Santa Sede. Robe da verifica di governo, con tutto il rispetto.

Sarà anche per questo che la pattuglia di coloro che tra le imprese italiane sono capaci di stare sui mercati e non sono indebitati a rotta di collo, un Leonardo Del Vecchio di Luxottica per fare un nome, dell’epocale scontro che si consuma se ne impipa, non gli dedica neanche un minuto.

Lo stato complessivo di salute delle imprese ha il suo peso, nel tono basso, sfuggente e insieme astioso del dibattito sul post D’Amato. Perché dal 1998 s’è invertita la tendenza, i profitti in corsa prima sono rallentati e dal 2000 torna alle perdite, il conto aggregato delle 1941 società che R&S monitora ogni trimestre. I debiti finanziari galoppano, oltre il 50 per cento del capitale investito nel 2003, erano sotto il 40 nel ‘98. Oggi la media è di un debito dichiarato pari a quattro volte e mezzo il patrimonio tangibile.

Pur con tutte queste attenuanti, i conti non tornano. Pensate il rumore, se un Del Vecchio o chi per lui se ne uscisse dicendo “il Re è nudo e non me ne importa più nulla di pagarne la Corte”. Se organizzasse un convegnino intorno a un’idea semplice e forte. Del tipo: Confindustria ha 85 anni ma in realtà la sua struttura è nata per fotocopia della Cgil negli anni 50. Le 105 associazioni territoriali e le 100 di categoria, le 13 federazioni di settore e le 258 organizzazioni associate, per 113mila imprese e 4milioni e 200mila dipendenti, continuano a rispecchiare la sfida prima di Confindustria, la sua ragione sociale storica.

Cioè la contrattazione: via via sempre più centralizzata e di settore, come nei decenni il sindacato e la politica italiana l’hanno disegnata e gli industriali subita. Riforme statutarie ce ne sono state. L’ultima quella Mondello-Tognana, in questa gestione. Quella affidata a Leopoldo Pirelli, 30 anni prima. Ma hanno modificato gli assetti interni, mai hanno “rifondato”.

Pensate allora se il nostro ideale Del Vecchio continuasse nel suo ragionamento dicendo: cari amici, non ha molto sugo star qui ad accoltellarci se D’Amato sia stato troppo spanciato sul governo Berlusconi, e se e quanto sia stato un errore il sostegno alla battaglia sull’articolo 18. La riforma del mercato del lavoro c’è stata. Quella delle pensioni no. Su tutte le altre che chiediamo per essere più competitivi, gravano i nostri cattivi risultati e le debolezze della politica. Allora facciamo un salto in avanti.

Chiunque governi, diciamo a lui e ai sindacati che siamo pronti a sbaraccare il Moloch. Se si cambia la struttura della contrattazione, noi la Confindustria attuale la smontiamo. Intanto risparmiamo 40 milioni di euro. Ma è niente, se pensate al vantaggio di abbattere il mito del contratto nazionale centralizzato. Oggi i grandi gruppi le condizioni se le trovano imposte dai mercati esteri, le microimprese dipendono dai costi di rete territoriale. Anche il sindacato lo sa, ma non può essere lui a proporlo. Anzi il sindacato ha problemi di rappresentanza più seri dei nostri, il contratto nazionale non tiene più realtà tanto diverse.

Avete visto i Cobas delle tramvie e la Triplice a polpette? Ecco la nostra offerta. Mettere la testa sotto la ghigliottina, in cambio di contratti territoriali e nelle aziende. L’unica ricetta liberista che una nuova Confindustria può offrire al paese. E’ solo un sogno? “L’ idea è ottima ma ce ne fossero di industriali così”, conforta da Torino il nume della minoritarissima pattuglia liberista italiana, Sergio Ricossa.

“Purtroppo gli industriali italiani liberisti non sono mai stati, al di là degli omaggi formali a Luigi Einaudi, appena le cose vanno male hanno bisogno del sostegno di Stato. E oggi le cose vanno male. Può una Confindustria battersi alla morte per le liberalizzazioni, quando suoi grandi nomi hanno rilevato dallo Stato i servizi offerti in condizioni di monopolio di rete o di fatto? Di Angelo Costa ce n’è stato uno, il più grande presidente di Confindustria del dopoguerra. Gianni Agnelli dovette negoziare la ritirata delle imprese, cedendo sul punto unico di contingenza.

La rivoluzione damatiana, di una Confindustria-movimento nata per rivolta contro le grandi famiglie e Torino, resta incompiuta. Perché quando si riaprono le falle nelle stive, gli industriali ripiegano le bandiere e tendono la mano. Anche perché il sindacato resta forte, e bisogna pur tenergli testa”. “Bella provocazione”, ammette Angelo Panebianco. “Ma sottovaluta l’effetto sugli industriali dal venir meno di prospettive forti sulla scena politica.

Quattro anni fa la svolta di D’Amato fu sospinta dal vento che portò poi alla vittoria del Polo. Oggi la politica offre poco, quel po’ che offre è confuso. Nella confusione, a Confindustria resta il dovere di offrire al paese una piattaforma che richiami alle priorità dell’impresa”. Le vede, nel confronto attuale? “Non direi”. “Ma è il prezzo che si paga alla scelta di D’Amato di schiacciarsi sul governo”, obietta Edmondo Berselli, direttore del Mulino ed editorialista dell’Espresso.

“Tutti conosciamo limiti e guai della concertazione. Ma questo è un paese che teme il mercato e i suoi costi, e perciò continua a volere caparbiamente concertare. Ma al tavolo, se unifichi la tua posizione con quella del governo, semplicemente sparisci”. E’ l’argomento forte di Montezemolo. “C’è anche dell’altro”, continua Berselli. E’ la fine di un decennio in cui, a cominciare dalla presidenza di Luigi Abete, Confindustria si convinse di poter giocare un ruolo di supplenza politica, battendosi per il maggioritario e le privatizzazioni. Per esercitare quel ruolo, anche un po’ improprio, bisogna avere fiato e soprattutto denari in cassa. E’ per questo che il confronto attuale torna ad assumere la forma di una cooptazione interna”.

Collusa all’eterno collusivo del gorgo concertatorio italiano, lo ammette questo, Berselli? “Vagamente collusiva, diciamo”. “Fate i conti senza l’oste”, dice il ds liberal Franco Debenedetti. “Anche il potere finanziario esercitato dalle banche, oggi, fa abbassare i toni agli industriali. Da ex industriale, sono liberista e accetto la provocazione. Ma prima del disarmo confindustriale li vorrei vedere, governo e sindacati che smontano i contratti nazionali”.

Restiamo della nostra idea. Ridateci un Dante Ferraris, il pioniere dell’associazionismo industriale che a inizio 900 dialogava con gli Alberto Beneduce. Morire per rinascere con una nuova contrattazione, chi ha le gambe cammini, chi ha i soldi metta mano al portafoglio, e coi sindacati si riprenda a trattare, avanti marsch. Altro che polemiche sui filo e gli anti berluschini, e l’ideuzza di acconciarsi di soppiatto al ritorno della sinistra. Furono Angelo Costa e Giuseppe di Vittorio, a stringere insieme il patto delle gabbie salariali. Idee forti chiamano uomini di vaglia.

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