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S&P, ‘paralisi politica’ e debito pubblico dell’ Italia: altro che moschee e ministeri a Milano

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Roma – Il 22 dicembre del 2009 l’agenzia di rating Moody’s annunciò gelida: “Grecia e Portogallo rischiano una morte lenta”. La profezia, due anni dopo, sembra realizzarsi e il “pre-declassamento” del nostro debito da parte di Standard&Poor’s, agenzia controllata dal colosso McGraw Hill che a sua volta ha come primo azionista il mega fondo Capital World Investors, non sembra promettere niente di buono. Torneremo nel girone infernale dei Pigs, i paesi maiali con rating “B” esposti alla speculazione?

Nella migliore delle ipotesi per l’Italia si profila un percorso di guerra dove di fronte ad ogni ostacolo verrà emesso un giudizio. Un passo falso e la furia dei mercati potrebbe abbattersi sul nostro debito pubblico che nel 2011 chiede risorse per 188 miliardi.

Tremonti ha ribadito anche ieri che l’obiettivo dell’Italia è quello di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2014 e che entro luglio saranno approvati dal Parlamento i necessari provvedimenti. Due anni dopo, nel 2016, ci sarà la verifica di Bruxelles sulla nuova “regola del debito” che impone di ridurre del 5 per cento l’anno la differenza tra lo stock e il livello del 60 per cento del Pil.

Il governo ha già annunciato una cura da cavallo da circa 40 miliardi per il 2013-2014 che ha fatto alzare il sopracciglio anche alla Banca d’Italia: se non si vogliono imporre sacrifici eccessivi, dicono a Via Nazionale, la crescita deve essere almeno del 2 per cento l’anno. Ed invece il Def prevede per i prossimi tre anni una media dell’1,5 per cento di dubbia realizzazione.

Il debito – vero ventre molle del paese – è per i mercati come l’odore del sangue per i vampiri, e quello italiano è una preda ambita. Nel 2010 è cresciuto di circa 3 punti percentuali rispetto all’anno precedente e nel 2011, sempre secondo le cifre ufficiali, è destinato a toccare la cifra record del 120 per cento. Certo, possiamo consolarci guardando le cifre della Germania, ma chiudendo un occhio sulla base di partenza: nel 2010 Berlino ha aumento il rapporto debito-Pil di 10 punti percentuali e oggi – come è solito ricordare Tremonti – in valore assoluto il suo debito è più alto di quello italiano (2080 miliardi contro i nostri 1.843 [pari a 2,608 trilioni di dollari, al valore dell’euro della chiusura di venrdi’ di 1.4155).

Magra consolazione e piuttosto rischiosa se ci si culla sugli allori e si considera che sul fronte della crescita l’Italia segna amaramente il passo ed è assai lontana dalla Germania. Quest’anno cresceremo di uno scarso 1 per cento, contro il 4,9% per cento dei tedeschi. Lo confermano gli attesi dati del primo trimestre di quest’anno: rispetto all’ultimo trimestre del 2010 abbiamo fatto 0,1 mentre Berlino e Parigi, rispettivamente, 1,5 e 1 per cento. Morale: la ripresa dopo la crisi ci vede in affanno.

Mancano – altro punto dolente – interventi più decisi nella spesa pubblica, ma anche un forte ciclo di riforme, che in Germania ha fatto la differenza. Sono molti, da mesi, a chiedere di agire: da Draghi, a settori delle opposizioni, produttivi e anche sindacali. Ma il governo è fermo. Ed è proprio questo il punto che ha fatto parlare Standard&Poor’s di “paralisi politica”: un paese con una maggioranza costantemente a rischio e un Parlamento occupato dalle leggi ad personam di Berlusconi.

C’è da dire tuttavia che lo “stellone” italiano può ancora aiutarci. Esistono alcuni punti a favore del Belpaese che potrebbero tenerci lontani dai Pigs. La stretta di Tremonti, letale per l’economia, rappresenta tuttavia uno scudo rispetto alle pretese dei mercati (il rapporto deficit-Pil dovrebbe scendere sotto il 3 per cento il prossimo anno). C’è poi la variante debito-estero: un economista autorevole in Europa, Daniel Gros, l’ha individuata come quella decisiva. Sono i paesi che hanno un forte debito estero, molti titoli di Stato in mano agli stranieri e poca ricchezza privata a stare peggio: un identikit che si adatta alla Grecia (con una posizione finanziaria netta sull’estero negativa del 99 per cento), ma non all’Italia (negativa solo del 20 per cento e con una forte ricchezza privata tale da resistere anche ad una patrimoniale).

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