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RINGRAZIAMO L’EURO. SENZA, SAREBBE ANDATA PEGGIO

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«La spada di Damocle finalmente è caduta, meglio così». «Standard & Poor’s chi? Quelli che hanno sbagliato il giudizio sulla Parmalat?» «Bocciatura? Ma è robetta rispetto alle crisi valutarie dei primi anni ’90». Nella corsa a minimizzare le conseguenze del «downgrading » del debito pubblico italiano deciso dalla principale agenzia internazionale, molti politici del centrodestra hanno fatto ricorso ad immagini ai limiti del pittoresco.

Pochi hanno ammesso – e lo hanno fatto quasi sottovoce – che la crisi che si è aperta non sta avendo conseguenze dirompenti grazie al tanto bistrattato euro. Ci fosse ancora una lira debole ed esposta ai venti, sarebbe stata spazzata via senza complimenti, come avvenne nel ’92, quando il governo Amato fu costretto a varare due manovre nel giro di pochi mesi con un impatto totale sull’economia di oltre 100 mila miliardi di lire.

L’euro, che negli ultimi anni ha garantito credito praticamente infinito e a costo molto basso alle esauste casse dello Stato italiano, ora elargisce all’Italia un secondo, corposo dividendo: uno scudo che la protegge dalle tempeste finanziarie e lascia al governo il tempo di varare con tutta calma le contromisure necessarie. Dodici anni fa fu necessario decidere in poche ore vere e proprie amputazioni della spesa pubblica, oggi si può tranquillamente continuare a discutere di un taglio delle tasse che creerà un ulteriore sbilancio tra entrate e uscite pari a quasi un punto percentuale del Pil, il reddito nazionale.

Una differenza che andrà coperta con tagli strutturali della spesa la cui natura non è stata però ancora indicata e che si sommano agli interventi per 7,5 miliardi di euro (oggi all’esame del Consiglio dei ministri) per riportare il deficit 2004 entro il 3% e alle altre misure che andranno decise in autunno con la Legge finanziaria per correggere un disavanzo che – secondo le stime della Ue – nel 2005 raggiungerà il 4%, anche per il venir meno di gran parte delle una tantum varate nei primi anni di questa legislatura.

Non c’è tempesta per l’Italia perché, senza lira, le conseguenze si sentono solo sui tassi d’interesse. E, come abbiamo scritto qualche settimana fa, i mercati avevano in parte già scontato un giudizio negativo sulla gestione del debito pubblico italiano, facendo lievitare i tassi sui titoli a lungo termine in misura non clamorosa ma sufficiente a portarci al livello della Grecia, in coda alla pattuglia europea. Il tutto, nel disinteresse generale.

Il rischio è proprio questo: al di là di un effetto indiretto sui prezzi che ha inciso sul potere d’acquisto di buona parte dei cittadini, l’introduzione dell’euro ha garantito al Continente grande stabilità.

Il che è un vantaggio per tutti salvo per chi sa coagulare consenso e adottare misure incisive solo nell’emergenza, solo quando l’alternativa è il naufragio. I leader della maggioranza, che in questi giorni cercano un nuovo equilibrio per affrontare la parte finale della legislatura, devono sforzarsi di non dimenticarlo mai nella loro trattativa: è politicamente comprensibile che ognuno cerchi di conquistare la migliore posizione relativa possibile in vista della volata elettorale, ma il compito principale della politica oggi è quello di capire che viviamo in un nuovo sistema economico in cui un Paese può affondare lentamente senza il dramma delle vele strappate e gli alberi spaccati da un fortunale.

L’incapacità di contenere in modo strutturale la spesa, ogni infiltrazione clientelare nelle aziende ancora controllate dallo Stato, ogni misura che riduca la già bassissima efficienza della pubblica amministrazione – si tratti di uno scorporo di competenze ministeriali sulla base di logiche di potere o di una «devolution» squilibrata che non definisce chiaramente ruoli, competenze e responsabilità – si paga con altre perdite di competitività, l’allontanamento dal convoglio degli altri Paesi industrializzati, un ulteriore aumento dei tassi e quindi del peso di un debito pubblico che già oggi rappresenta un insopportabile freno alla crescita.

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