Roma – Il limite principale della riforma Monti-Fornero pare essere l’irragionevole convinzione di poter ingabbiare la multiforme e sempre più diversificata realtà dei moderni modi di lavorare e produrre in un prevalente schema formale, quello del lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Conseguentemente risultano vietate, almeno in termini sostanziali, le forme di lavoro coordinato e continuativo, ancorché genuine, e le partite IVA, vengono compresse in una area di eccezionalità e temporaneità il lavoro a termine, sono abrogati i contratti di ingresso incentivati per i gruppi svantaggiati, sono penalizzati il part-time e altre forme di lavoro che pure, come i voucher per prestazioni occasionali e il lavoro a chiamata, avevano consentito l’emersione di imponenti spezzoni di lavoro sommerso e irregolare.
Una siffatta lotta senza quartiere verso le forme di lavoro flessibile è possibile solo a condizione di smantellare in modo sostanziale, forti della riforma degli ammortizzatori sociali, le rigidità in uscita. Tertium non datur.
Una soluzione a metà, come quella che emerge dal disegno di legge n. 3249 finirebbe infatti per penalizzare non solo il sistema delle imprese, ma prima ancora gli stessi lavoratori.
A partire dai giovani e dai molti lavoratori esclusi dal mercato del lavoro che paradossalmente, e ancor più di quanto avviene oggi, sarebbero vittime sacrificali predestinate (non al “precariato” ma) al lavoro “nero” e alla economia sommersa.
Con il disegno di legge n. 3249 siamo solo a metà del guado. Spetterà ora al Parlamento decidere se procedere sino in fondo, sul versante delle flessibilità in uscita, o se fare, invece, una frettolosa marcia indietro sul fronte delle flessibilità in entrata.
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