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Riforma Lavoro alimenta l’incertezza allontanando gli investimenti

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Milano – In questi giorni stiamo assistendo al dibattito riguardo la riforma del mercato del lavoro proposta dal Governo. Si tratta di un provvedimento molto complesso che interviene sugli ammortizzatori sociali, sulla disciplina del licenziamento e sulle forme contrattuali cosiddette “precarie”.

L’esito del dibattito tra Governo, forze politiche e sociali è un compromesso pasticciato e “al ribasso” che, pur senza risolvere alcuni dei nodi che intendeva sciogliere, potrebbe generare ulteriore incertezza nel sistema.

Come lo stesso Presidente Monti ha infatti recentemente affermato, uno degli elementi che rendono il nostro Paese così poco attrattivo per gli investimenti è proprio l’incertezza connaturata al sistema legislativo e giudiziario.

Attribuire al giudice la scelta tra reintegrazione e indennità in caso di illegittimità del licenziamento disciplinare o di manifesta infondatezza del giustificato motivo oggettivo, potrebbe avere l’effetto di introdurre un nuovo elemento aleatorio nel sistema con possibili conseguenze negative sulla possibilità delle parti di prevedere l’esito del processo.

Il rischio è quindi, da un lato, quello di scoraggiare ulteriormente gli investimenti che necessitano, per definizione, di certezze e programmabilità e, dall’altro, di rendere molto più insicure le prospettive di tutela del lavoratore.

Il compromesso al ribasso con il quale siamo costretti a confrontarci lascia tuttavia ancora qualche spazio di modifica “virtuosa” che, pur mantenendo inalterati gli elementi fondamentali della mediazione raggiunta, potrebbe migliorare di molto gli effetti nel sistema della riforma.

La vera svolta storica, evocata dal Presidente del Consiglio, potrebbe essere quella di introdurre nel dibattito una prospettiva nuova nell’affrontare il tema del lavoro.

Uno dei principali problemi del sistema Italia è la scarsa produttività delle nostre imprese. Se da un lato questa caratteristica deteriore del nostro tessuto produttivo è causata dalla scarsità di investimenti, dall’altro non si può negare l’esistenza di una criticità relativa allo “scarso rendimento” dei dipendenti.

Il merito, cui tutti i partiti che sostengono il Governo dicono di far riferimento, talvolta non abita nelle nostre imprese. In Italia infatti, è difficile, se non impossibile sanzionare con il licenziamento un dipendente che svolga le proprie prestazioni in maniera negligente o comunque insoddisfacente. D’altra parte, il merito e la produttività sono ancora poco valorizzati in termini di incentivi economici e salario.

Una normativa piuttosto datata unita a una giurisprudenza eccessivamente conservativa, hanno portato alla situazione per cui oggi un imprenditore non può far spazio a un lavoratore meritevole, licenziando un proprio dipendente che non svolge adeguatamente il proprio lavoro.

L’art. 3 della legge 604 del 1966 prevede la giustificatezza del licenziamento intimato a causa di “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali” da parte del lavoratore. In questo caso l’ordinamento prevede un onere a carico del datore di lavoro che deve avviare con una lettera di contestazione una procedura disciplinare all’esito della quale, eventualmente, disporre il licenziamento. La lettera disciplinare deve contestare “fatti specifici” e deve avere la caratteristica della “tempestività”: deve cioè essere recapitata al dipendente a brevissima distanza di tempo rispetto al fatto contestato.

Appare evidente come lo “scarso rendimento”, ovvero la condizione di un lavoratore che risulti essere poco produttivo rispetto ai propri colleghi nel corso di un determinato periodo di tempo, poco si adatti ai paletti che l’ordinamento impone al procedimento disciplinare: lo “scarso rendimento” va normalmente valutato su un arco di tempo abbastanza lungo ed una contestazione relativa a un anno di lavoro potrebbe risultare non “tempestiva” e, quindi, inammissibile.

Sarebbe quindi auspicabile una modifica della normativa attuale che “tipizzi” lo “scarso rendimento” quale giustificato motivo soggettivo di licenziamento, per consentire al merito di entrare a pieno titolo nelle aziende italiane. Si tratta cioè da un lato di indicare nella legge i casi in cui sia possibile licenziare un lavoratore la cui qualità del lavoro non sia soddisfacente, dall’altro di consentire, in quei casi, un adeguamento dei requisiti del procedimento disciplinare a questo motivo di licenziamento.

In questo modo l’esigenza di garantire la produttività verrebbe contemperata con quella della trasparenza tipica del procedimento disciplinare, evitando pratiche “distorsive” quale quella di “mascherare” un licenziamento disciplinare (motivo soggettivo) con un licenziamento economico (motivo oggettivo). Andrebbero ovviamente specificati i casi in cui un rendimento inferiore alla media non possa essere addebitato al lavoratore, come in caso di malattia, recente maternità o paternità, età elevata o carenza dell’organizzazione del lavoro aziendale.

Si tenga inoltre presente che, normalmente, una azienda che decida di disporre il licenziamento per un proprio dipendente poco produttivo, ricorre con più facilità all’assunzione di nuovo personale in sostituzione al lavoratore di cui si è privato.

Tipizzare lo “scarso rendimento” quale causa di licenziamento, darebbe la possibilità ai disoccupati “meritevoli” di mettersi alla prova ed essere assunti con l’introduzione di un elemento positivo di mobilità del mercato del lavoro. Ed è peraltro prevedibile la forza “psicologica” che avrebbe valorizzare l’esigenza della produttività all’interno dei luoghi di lavoro.

Ciò dovrebbe avvenire non solo dal punto di vista del licenziamento ma – ed è incredibile che nessuna forza politica ne parli – anche attraverso la valorizzazione dei premi economici al merito, incentivandoli sia a livello contrattuale sia a livello legislativo (tramite una coerente politica di esenzione fiscale dei “premi”).

La modifica proposta, rimettendo il merito al centro del dibattito, potrebbe contribuire ad incentivare la produttività del lavoro con beneficio per le imprese, l’economia del Paese e, quindi, l’occupazione, con un impatto limitato sull’assetto di tutele previsto dall’attuale ordinamento.

SUGLI AUTORI

Luca de Vecchi è Responsabile Nazionale Giovani di Italia Futura. Laureato in Giurisprudenza all’Università Bocconi di Milano di cui è stato Consigliere Accademico per 3 anni e, insieme, Consigliere di Facoltà per 4. Ha guidato il Coordinamento delle rappresentanze studentesche universitarie milanesi. Si occupa di diritto del Lavoro presso lo studio legale Pavia & Ansaldo a Milano.

Valerio De Stefano si è laureato in Giurisprudenza nel 2006. Ha conseguito il Ph. D. in Diritto dell’Impresa nel 2011 presso l’Università commerciale “Luigi Bocconi” di Milano. Assegnista di ricerca e Professore a contratto di Diritto del Lavoro presso la stessa università. Ha svolto periodi di ricerca presso l’Università di Warwick e l’International Labour Organization. I suoi temi di ricerca riguardano la subordinazione, i rapporti di lavoro temporanei e i contratti relazionali. È avvocato in Milano.

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