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Rally borse al capolinea o inizio di un grandioso movimento secolare?

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*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR. ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

Milano – Tutti i giorni ci capita di attraversare la strada. Un’occhiata a destra, una a sinistra e al momento buono si va, con passo più o meno spedito. Anche i cani e i gatti se la cavano piuttosto bene. Né i cani, né i gatti, né molti degli umani hanno robuste cognizioni teoriche di calcolo differenziale o di cinematica, ma in qualche modo ancora non perfettamente noto ai neurofisiologi si riesce tutti quanti a stimare la velocità del tram che viene da destra e quella dell’auto che viene da sinistra e a infilarcisi in mezzo.

Ogni giorno, nel mondo, più di tremila persone muoiono in incidenti stradali. Un milioneduecentotrentamila all’anno, secondo calcoli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Qualcuno si distrae, altri sbagliano qualche equazione e lasciano per sempre il loro corpo, ma il mondo va avanti. Se l’automobile fosse stata inventata ai giorni nostri, di fronte alla prospettiva di un milione e passa di morti all’anno si organizzerebbero immediatamente dei referendum per abolirla (si abolisce il nucleare in Giappone anche se Fukushima non ha fatto neanche una vittima). Se un secolo fa i nostri bisnonni fossero stati fifoni come noi, oggi gireremmo ancora in calesse.

Tutti i giorni, nel mondo, si comprano e si vendono azioni. Lo si fa in modo naturale, fluido, intuitivo. Spesso, prima di agire, si dedica all’analisi lo stesso tempo che si dedica allo studio del traffico quando dobbiamo attraversare la strada. Dal treno, dalla macchina, durante un incontro di lavoro si viene a sapere che un analista si è svegliato e ha deciso di consigliare l’acquisto di un titolo e lo si compra subito. Inutile aspettare, lo si pagherebbe più caro. Un solenne e rispettabile comitato investimenti nota che molti altri comitati hanno deciso di vendere e dispone prudentemente l’alleggerimento dei portafogli (sfruttando eventuali rialzi, naturalmente).

Ogni giorno, sui mercati, qualcuno si fa male. Altri, al momento dei bilanci, registrano risultati mediocri. Qualcuno, per fortuna, riesce a produrre buoni risultati. La differenza tra gli attraversatori di strada e i gestori di portafogli è che tra i primi pochi hanno studiato calcolo all’università, mentre tutti i gestori professionali (e ormai molti investitori individuali) conoscono molto bene il concetto di premio per il rischio azionario (Equity Risk Premium, Erp), hanno studiato come si calcola e sanno come va utilizzato per decidere se comprare o vendere. Peccato che non lo usino quasi mai.

L’Erp, almeno in teoria, dovrebbe essere la regola aurea della gestione, la stella polare che guida la migrazione dal risk free alle terre agitate dell’azionario e viceversa. Detto nel modo più semplice, l’Erp è dato da quei punti in più di rendimento che l’azionario promette di garantire ogni anno all’investitore per compensarlo dei rischi che si troverà a correre. Quando il premio per il rischio è alto vale la pena comprare l’azionario, quando è basso è meglio smontare tutto e tornare nei porti sicuri del risk free. Quello che appare ragionevolmente certo ex ante (quello che l’azionario promette guardando al suo rendimento attuale e atteso e paragonandolo con quello di Bund e Treasuries) non sempre viene mantenuto, ma se si vuole essere razionali non c’è un metodo migliore per decidere.

Se parliamo qui dell’Erp è perché, in questi giorni, il dibattito sul tema, normalmente relegato alle pubblicazioni accademiche, è diventato molto caldo. Dietro alle disquisizioni colte e un po’ esoteriche su cui si stanno esercitando economisti, strategist, psicologi del comportamento e accademici di ogni osservanza, si intravede chiarissimo uno scontro duro sul tema vero che interessa a tutti. Il rialzo azionario è finito o siamo solo agli inizi di un grandioso movimento secolare?

Tutto nasce da una pubblicazione recente del CFA Institute, Rethinking the Equity Risk Premium (disponibile in rete). Una decina di cultori della materia si riuniscono, riprendono in mano un lavoro analogo del 2001, ne analizzano i risultati alla luce di quanto è successo effettivamente (ahinoi molto diverso da quello che si pensava allora che sarebbe accaduto) e rivisitano il concetto di premio per il rischio, scomponendolo minuziosamente in tutte le sue quasi infinite sfaccettature e arrivando ognuno a risultati diversi, tutti interessanti e originali.

La sobria e onesta conclusione di questo eccellente lavoro è che di Erp ce ne sono uno, nessuno e centomila. In questo l’Erp ci ricorda la Taylor rule, che nasce come una formula semplice, elegante e soprattutto straordinariamente efficace per guidare la politica monetaria, salvo andare incontro, dopo qualche tempo, a un numero crescente di varianti e sottovarianti che, nel tener conto di tutte le complicazioni possibili, l’hanno resa sempre più pesante e praticamente inutilizzabile.

A seconda del metodo utilizzato, gli studi arrivano a stime molto diverse dell’extrarendimento che ci possiamo aspettare dalle azioni. Con un approccio (quello di Grinold, Kroner e Siegel) si perviene a una stima di ritorno totale dell’azionario nel prossimo decennio del 7 per cento annuo (4 punti sopra il rendimento atteso per i governativi decennali). Gli altri studi si fermano prima e ipotizzano quasi tutti un Erp di 2-3 punti (alcuni anche meno).

Apriti cielo. A parte l’Economist, lieto di proporre ai lettori del numero in edicola queste stime che mettono in crisi il modello di business di molti fondi pensione inglesi e americani, è dentro Goldman Sachs che si apre un vivace dibattito.

Jim O’Neill si ricalcola l’Erp e arriva a trovarlo estremamente invitante. Il suo punto è che la crescita globale, grazie soprattutto ai Bric, è così forte che le prospettive per gli utili non possono che essere positive e tali da potere fronteggiare senza problemi la concorrenza dei tassi in rialzo sui governativi.

Nelle stesse ore David Kostin, strategist di Goldman sull’azionario americano, ribadisce dai microfoni di Bloomberg Radio la sua idea che l’SP 500 chiuderà l’anno a 1250. C’è stato solo un inverno straordinariamente mite, afferma, che ha sostenuto i consumi e l’edilizia. Presto torneremo a una crescita mediocre dell’economia, un contesto che porta a un arresto della crescita dei margini e a un aumento degli utili sempre più modesto. Con il petrolio inchiodato su questi livelli elevati i consumi dovranno prima o poi ripiegare, mentre la fine dell’anno è piena di incognite politiche e geopolitiche. Perché mai, con questi presupposti, le borse dovrebbero continuare a salire?

Con toni radicalmente e clamorosamente diversi, Peter Oppenheimer pubblica 40 pagine sull’Erp per arrivare alla conclusione che siamo alla vigilia di un bull market secolare. Formalmente non c’è contraddizione. Kostin, in Goldman, ha giurisdizione sugli Stati Uniti, mentre Oppenheimer parla dell’Europa e porta l’evidenza del Roe e dei margini di profitto, che in America sono sui massimi storici, mentre da noi sono ancora ampiamente al di sotto dei livelli del 2007 e hanno quindi spazio di recupero. Anche le valutazioni, del resto, sono più favorevoli in Europa.

Le 164 pagine del CFA Institute e le 40 di Oppenheimer sono molto dense e ci prenderemo il tempo per una lettura calma e meditata. Al momento, più che entrare nel merito delle teorie e delle tesi esposte, vorremmo fare qualche considerazione metateorica sui tempi e i modi dei dibattiti sulle metriche di valutazione azionaria.

Curiosamente, ma spiegabilmente, ai minimi di mercato si discute poco di Erp. Nelle fasi intermedie di un ribasso ci sono tipicamente discussioni accese sulla trappola del valore, sul fatto cioè che le società che appaiono a buon mercato hanno però qualche elemento (il bruciare cassa è il più frequente) che rischia concretamente di deprimerne ulteriormente il prezzo.

Nella fase terminale del ribasso cala invece un silenzio spettrale anche sulle metriche, che appaiono irrilevanti in un contesto in cui non è chiaro se l’indomani sorgerà ancora il sole, se ci saranno ancora banche e società non fallite o nazionalizzate. Queste sono le fasi in cui comprare, è soprattutto un atto di fede, una scommessa sulla continuità della vita.

I primi anni di rialzo azionario vedono una moderata ripresa del dibattito sulle metriche, ma sono segnati soprattutto da un’interpretazione ferocemente rigida e conservatrice delle metriche classiche. Nei primi Anni Ottanta, dopo il bagno di sangue del decennio precedente, un rapporto prezzo utili di 7 era considerato molto caro sulla borsa americana e al P/E si preferiva il valore di libro. Si comprava preferibilmente sotto la metà del book value (che allora significava ancora qualcosa e non era la costruzione artistica che è oggi).

Nel secondo e terzo anno di rialzo si parla più di economia che di valutazioni. Poi, a un certo punto, si comincia a partire per la tangente. Il rialzo non solo diventa una certezza, ma appare ad alcuni appena cominciato. Poiché quando il ciclo è maturo gli utili cessano di crescere (o iniziano addirittura a declinare, come accadde tra il 2007 e il 2008 mentre il mercato continuava a salire), gli ottimisti devono iniziare a lavorare sulle metriche e trovare qualcosa di nuovo che giustifichi i livelli raggiunti e gli ulteriori rialzi auspicati.

Quello che sta accadendo in questi giorni è una pallidissima ombra dell’orgia di revisionismo dell’inverno 1999-2000, quando si arrivò a teorizzare l’azzeramento dell’Erp come meta imminente del rialzo. Oggi tutto è ancora abbastanza contenuto e il fermento che vediamo potrebbe indicare un massimo di periodo, non di ciclo.

A monte della questione delle metriche si staglia la domanda radicale. Siamo davvero entrati a pieno titolo nel paradigma della normalità o stiamo solo facendovi qualche incursione di prova? Se la risposta è che siamo dentro non occorre forzare le metriche o inventarne di nuove, perché quelle in uso possono accomodare ancora un certo rialzo. Come dice Byron Wien, se siamo in un mondo normale non ci sono problemi particolari a passare da un multiplo di 14 a uno di 15 (e quindi da un SP 500 a 1400 a uno a 1500).

Sulla questione della normalità facciamo due osservazioni. La normalità presuppone che arrivati a questo punto (siamo al quarto anno di rialzo azionario, signori, anche se continuiamo a sentirci ancora molto malati) ci sia un anno di bear market obbligazionario duro.

Non siamo di questo avviso. Avere bond di qualità non sarà particolarmente divertente, nei prossimi mesi, ma non comporterà nemmeno i rischi di un nuovo 1998 o di un 2003-2004. Con l’8.3 per cento di disoccupati e un mercato immobiliare ancora comatoso la Fed cercherà qualsiasi pretesto per continuare a tenere bassa la curva dei rendimenti, parte lunga inclusa. Accetterà un ribasso modesto dei corsi obbligazionari, ma non molto di più.

Questo significa, paradossalmente, che non siamo nella normalità, ma in una sorta di ipernormalità che fornisce all’azionario un sostegno ancora più robusto. Avere una crescita quasi normale dell’economia e mantenere al tempo stesso tassi eccezionalmente bassi (anche se un po’ meno bassi) può mettere il turbo alle borse anche senza bisogno di ulteriori interventi di Quantitative Easing (in ogni caso ancora possibili).

Al tempo stesso bisogna però fare anche un respiro profondo e tornare a riflettere sulla crisi europea, che nell’entusiasmo abbiamo già archiviato in cantina e completamente dimenticato. Willem Buiter, per chi lo ha seguito in questi anni, è uomo che ama provocare e tirare pugni nello stomaco, ma fa comunque un certo effetto sentirlo affermare che la Grecia dovrà ristrutturare di nuovo il debito entro quest’anno, che il Portogallo e forse l’Irlanda dovranno farlo entro l’anno prossimo e che la Spagna non è mai stata così vicina alla ristrutturazione come adesso.

Buiter mette il dito in piaghe apertissime. Per addolcire i toni possiamo fare notare che il Portogallo, come il Giappone, ha una grande capacità storica di restare in apnea molto a lungo, che Portogallo, Grecia e Irlanda sono comunque attaccati alla flebo di Europa e Fondo Monetario e non hanno bisogno di presentarsi sui mercati in tempi brevi e che in Spagna il Partito Popolare controlla ormai anche le regioni (resta socialista solo l’Andalusia, ma ancora per poco) e questo dovrebbe rendere meno difficili i tagli a livello locale. Tagli imponenti, in ogni caso.

La consapevolezza dell’estrema fragilità dell’Europa, che i mercati non hanno più, rimane totale tra i policy maker (anche americani). Il riaprirsi della crisi provocherebbe una caduta delle borse e una sensazione di frustrazione molto pesante. Dopo avere fatto la bravata di fare fallire la Grecia, i politici europei non dovranno stupirsi se i mercati, in una fase di nuova difficoltà, saranno restii a sottoscrivere titoli governativi di quasi tutto il continente.

Né Obama, né la Fed, né i leader europei hanno voglia di rientrare nel tunnel. Non sono onnipotenti, come ormai sappiamo bene, ma possiamo essere certi che giocheranno pesante per tenere in piedi il mondo. Per la Fed e la Bce abbiamo imparato che cosa questo significhi. Per la Spagna, in questo momento, giocare pesante da parte dell’Europa vuol dire voltarsi tutti dall’altra parte, fischiettare e fare finta di niente (il contrario esatto di quello che è stato fatto l’anno scorso con l’Italia) sperando che lo spread continui a sonnecchiare su questi livelli. Anche con Hollande presidente, nel caso, la Merkel dovrà fare buon viso a cattivo gioco.

Per sintetizzare. Il rialzo azionario merita una fase laterale di qualche settimana, ma non vediamo ancora i presupposti per una correzione importante. La previsione continua a essere valida fino all’estate, poi ci risintonizzeremo.

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