Società

QUEST’ ITALIA
DEGLI SCIOPERI
E DELLA PIAZZA

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Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) –
Una regola saggia suggerisce, in politica
come nella vita, di limitare i danni quando
non si può vincere. Così, forse, bisognava
che facesse Tommaso Padoa-Schioppa con
la Finanziaria, quando gli è stato chiaro
che Romano Prodi avrebbe del tutto sacrificato
alle proprie esigenze di sopravvivenza
l’inevitabile mediazione con la sinistra-
sinistra della maggioranza.

Io ho sempre
approvato e sostenuto le “forzature”
del ministro dell’Economia – confessate
nei giorni scorsi al Monde – per creare le
condizioni più favorevoli a un compromesso
al rialzo dentro il governo: l’allarme sulla
finanza pubblica, l’evocazione del 1992,
le conseguenze nefaste del
mancato rispetto degli
impegni europei, dovevano
servire per imporre
una linea di rigore a
chi, per insipienza o codardia,
non voleva nemmeno
sentir parlare di
risanamento dei conti. La
stessa portata della manovra
doveva essere un’arma puntata contro i
massimalisti.

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Invece, le cose sono andate
diversamente, e il compromesso è stato al
ribasso. La Finanziaria è una delusione. E
non per i motivi che spingono taluni nel
centrodestra a voler scendere in piazza: la
prima Finanziaria della legislatura è molto
deludente non perché faccia versare “lacrime
e sangue” ai ceti medi – cosa non vera
– in nome di un’equità che peraltro non
c’è, ma perché non contiene nulla di veramente
strategico e autenticamente riformista
per far uscire il paese dal declino.

Gli avversari “interni” di Padoa-Schioppa
gli hanno lasciato scrivere il Dpef, poi
hanno cominciato a stravolgere l’impostazione
in esso contenuta. Anche questo era
nel conto, ma aver accettato di varare un
Dpef senza cifre, ma solo con indicazioni di
principio, ha facilitato gli “smontatori”. A
quel punto il ministro ha scelto la strada di
difendere la cornice anziché il quadro: ha
insistito sui 30 miliardi, dopo aver accettato
una riduzione di cinque, di fronte alle pressioni
al ribasso o addirittura al dimezzamento.

Anzi, nel finale ha portato la manovra
a 33,4 ben sapendo che quel di più andava
ad accontentare i ministri della spesa.
Certo, criticare è facile, e per un ministro
senza partito – nemmeno quello del presidente
del Consiglio, che peraltro è virtuale –
vincere un braccio di ferro di questo genere
sarebbe comunque arduo. Ma Padoa-Schioppa
aveva comunque una via d’uscita – oltre a
quella delle dimissioni, che ha fatto bene a
non praticare – ed è quella contenuta in due
numeri che lui conosce bene. Il primo riguarda
le entrate fiscali, che nel primo semestre
sono aumentate del 12,3 per cento rispetto
al 2005: 19.674 milioni in più, che portano
a circa 180 miliardi il gettito complessivo.

La seconda cifra attiene al fabbisogno del
settore statale, che nei primi nove mesi è stato
pari a 44,4 miliardi, rispetto ai 69,008 dello
stesso periodo dell’anno scorso (-25,6 miliardi).
Dunque, al netto dei rimborsi Iva dovuti
alla sentenza Ue sulle auto aziendali – che
comunque anche la Finanziaria non ha conteggiato
– c’erano le condizioni per considerare
meno oneroso del previsto il rientro al
di sotto del 3 per cento del deficit-pil, tanto
più che nella stessa relazione previsionale
s’indica per il 2006 non più il 4,1 per cento
scritto nel Dpef ma il 3,6. Il che significa una
manovra di rientro da 11-12 miliardi, non di
più.

Si potrà dire: e se quelle entrate non fossero
strutturali, cosa succederebbe il prossimo
anno? Vero, ma cosa c’è di strutturale
nella manovra attuale? Lo sono gli 8 miliardi
previsti dalla lotta all’evasione e all’elusione,
cui non si arriverà neppure? Lo è il
trasferimento del Tfr all’Inps? Insomma, una
volta accertato che la grande cornice della
Finanziaria avrebbe moltiplicato gli errori –
rovesciando il rapporto di 1/3 di aumenti di
tasse e 2/3 di riduzioni di spese inizialmente
previsto – forse era meglio scegliere la via
minimalista, riducendone drasticamente il
perimetro. D’altra parte, la confusione sugli
obiettivi da perseguire – oltre al risanamento
e allo sviluppo, si era evocata l’equità, come
se questa potesse prescindere dalla ripresa
economica, di cui può essere solo una
conseguenza – avrebbe dovuto mettere sull’allerta.

Ridare centralità alla crescita


Ora si deve rimediare. La possibilità c’è
– proprio grazie a un quadro reale dei conti
meno pesante del previsto – se però i
riformisti di entrambe le parti si decidono
a mettere in un angolo tanto i massimalisti
di sinistra quanto i populisti di destra. Ci
vuole un “tavolo dei riformisti” che riscriva
la Finanziaria su altre basi. Il “tavolo
dei volonterosi” ne è un buon inizio, ma
per riuscire occorre che Rutelli e Casini si
spendano personalmente e con convinzione.
Non si tratta di inciuciare, ma di tentare
di ridare una speranza al paese dopo un
quindicennio disastroso. Certo, è difficile
cambiare di segno a una Finanziaria che
doveva essere di risanamento e sviluppo
con qualche concessione all’equità, e che
invece è diventata di presunta equità, di risanamento
non strutturale e di sviluppo residuale.

Tuttavia, proprio perché il perimetro
della Finanziaria è largo, tanto vale
provare a ridare centralità alla questione
della crescita, collegandola al ddl Bersani
cosiddetto “Industria 2015”. L’obiettivo
prioritario deve essere quello di un “patto
per lo sviluppo”, che consenta di scrivere
in modo condiviso un piano per la riconversione
produttiva del nostro sempre più
marginale capitalismo. I riformisti sanno
che il problema dell’Italia non sono le iniquità,
ma il declino. E che con questa Finanziaria
e con l’opposizione in piazza ci
sono buone probabilità che lo si aggravi. E’
sufficiente per reagire?

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