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PRODI E I POTERI CHE GLI RUOTANO INTORNO

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(WSI) – Il manicheismo che caratterizza – tutta – la vita politica italiana fa sì che il centrosinistra presenti al suo elettorato scenari talmente lusinghieri da non ammettere mezze misure. Ne è una prova l’insistenza di Romano Prodi sulla promessa di felicità, meta prospettata per ben due volte dal leader dell’ Unione: «L’ Italia ha bisogno di un po’ più di felicità» (parole pronunciate a un congresso il 3 febbraio 2005) e «È possibile organizzare un po’ di felicità per noi» (faccia a faccia televisivo Berlusconi- Prodi dello scorso 14 marzo).

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Una promessa, questa, che non si spinge a fare neppure la Dichiarazione d’ Indipendenza degli Stati Uniti d’ America del 1776 la quale, com’è noto, semmai annovera tra gli inalienabili diritti umani, dopo la Vita e la Libertà, semplicemente la Ricerca della felicità. Tale e tanta è, d’altra parte, la smania degli elettori di centrosinistra di liberarsi del centrodestra di Berlusconi che tutto il resto viene considerato, indiscriminatamente, alla stregua di un agognato Paradiso. Che, come tutti dovrebbero sapere, è comunque una dimensione non di questa Terra.

Ora, è noto che il principale motivo che rende ostile a parte dell’elettorato la figura di Silvio Berlusconi è non solo il conflitto d’interessi ma la concentrazione di poteri (soprattutto mediatici) incarnata dall’attuale Presidente del Consiglio. Ma davvero la vittoria di Prodi alle prossime elezioni capovolgerebbe e muterebbe tutto questo impianto o invece, come è lecito immaginare, non se ne creerebbe uno nuovo, sebbene di diverso colore e più indiretto?

Il dubbio ha motivo di sussistere se si esaminano quali sono i poteri che sovrintendono (ben al di sopra del comune elettore) alla «consacrazione» preelettorale di Prodi e i rapporti che questi si troverà ad intrattenere nel caso diventasse il prossimo capo di governo italiano.

Per capire questa dinamica, che è nel suo genere universale e risponde a regole ben precise, occorre rifarsi alla definizione di potere data nel Seicento dal filosofo inglese Thomas Hobbes. Nell’analizzare le principali classi di potere, che sono quello politico e quello economico, Hobbes riteneva che il potere tout court consistesse «nei mezzi per ottenere qualche vantaggio».

Ritornando alla situazione italiana. Si ricorderà che nel 1994 il primo governo Berlusconi cadde perché trovò contro di sé tutti i «poteri forti» italiani. Per «poteri forti» s’intendono in genere la magistratura, l’alta dirigenza statale, la grande industria e l’alta finanza, gli editori e i loro giornali, persino l’insindacabile potere di veto e di giudizio che fa capo a gran parte della categoria degli intellettuali: in una parola quello che si chiama «establishment».

Berlusconi scontentò tali poteri perché poteva vantare per sé solamente il consenso elettorale. Mentre era parso chiaro allora che il potere politico era fuori del gioco democratico e che esso rispondeva ad altri, il successo di Berlusconi, quando gli arrivò, fu soprattutto tale perché fu un successo che andò contro l’«establishment », incontrando le esigenze della borghesia più pragmatica, l’artigianato, il piccolo e medio imprenditore (e si sa come il cuore pulsante che fa battere l’economia italiana è costituito soprattutto dalle piccole e medie imprese) e tutti coloro che erano più propensi a contare sulle proprie forze che ad appellarsi ad aiuti esterni.

Oggi, nuovamente, i «poteri forti» abbandonano Berlusconi perché con lui (ricordiamo la definizione di Hobbes) non sono riusciti ad ottenere vantaggi, come il totale controllo dell’economia o iniezioni di aiuti statali. In altre parole la Casa delle Libertà viene ancora una volta considerata (un demerito per chi subisce questa condizione) meno disponibile della sinistra ad uniformarsi a quel «capitalismo senza capitali» che pretende di guidare il flusso delle risorse, le finanze pubbliche, il credito, come in fondo è stato per gran parte della storia italiana. Sono i poteri che hanno sposato il «capitalismo relazionale » in cambio della difesa delle loro rendite.

In altre parole, come ha scritto Giuliano Ferrara su «Panorama» del 16 marzo scorso, questa parte di classi abbienti «non può sopportare che un uomo di grandi profitti faccia appello direttamente al popolo, si faccia un suo partito, partecipi alle elezioni e le vinca, governi per cinque anni senza propensione alla spartizione delle spoglie». Perché, dice ancora Ferrara,che è ovviamente di parte ma al quale non si può disconoscere una profonda capacità di analisi, «la grande regola non scritta è sempre stata in Italia che i soldi stanno da una parte, e fanno politica a modo loro, e la politica dall’altra, per far soldi a modo suo. E chi, come Berlusconi, incarni l’unificazione dei due mezzi alla fine deve essere demonizzato ed espulso dal gioco».

Si arriva in questo modo alla dicotomia che esiste anche in sede elettorale tra un mondo autonomo di grandi interessi e che finisce per manovrare le scelte politiche e, invece, il semplice elettore che è in massima parte ignaro di chi lo sovrasta, elettore che ha il sacrosanto diritto non solo di essere lasciato libero nella sua scelta elettorale ma anche, nel caso di una sua propensione a votare centrosinistra, di poterlo fare senza influenze esterne ma per propri e altrettanto sacrosanti motivi.

Sacrosanti, in teoria, anche per chi vota centrodestra, se non fosse che, come ha ricordato Piero Ostellino sul Corriere della Sera di sabato 18 marzo, «nei salotti della ricca borghesia progressista, che ha già trasferito i propri capitali in qualche paradiso fiscale, chi vota centrodestra è considerato meno di un cretino, confermando il paradosso che chi non è di sinistra non è sufficientemente ricco per poterselo permettere».

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