Società

PROCESSO
AGLI HEDGE

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

(WSI) –
Di certo, dal crollo dell’Ltcm, l’industria degli hedge non è più troppo abituata a curarsi le ferite. Abituata, com’era, a masse sempre in aumento e performance golose: secondo Mondo Hedge infatti, i patrimoni gestiti, a fine marzo 2007, avevano un valore di 1.569 miliardi di dollari, rispetto ai 185 del 1995. Ma ora, dopo una crisi di liquidità che non si vedeva da tempo e un’estate da incubo, gli hedge dovranno fare i conti con uno degli autunni più difficili della loro storia.

Hai mai provato ad abbonarti a INSIDER? Scopri i privilegi delle informazioni riservate, clicca sul
link INSIDER

E fronteggiare gli attacchi di chi, a torto o a ragione, li sbatte sul banco degli imputati. A partire dalla critica sulla scarsa trasparenza dei dati. I numeri ufficiali (performance e nav) di questo agosto di passione, infatti, inizieranno ad arrivare solo da fine settembre. Un capo d’accusa che però viene respinto da chi opera nell’industria. «Il fatto che il nav arrivi in ritardo è un problema relativo – afferma Stefano Bestetti di Hedge Invest – Un investimento in un fondo hedge deve essere inteso nel medio periodo: non ha senso entrare e uscire. Inoltre, le società elaborano durante il mese delle stime per tenere aggiornati i sottoscrittori sull’andamento settimanale».

AUTUNNO CALDO? C’è chi, poi, teme che l’emergenza non sia finita e che nei prossimi mesi altri fondi saranno costretti a correre ai ripari mettendo sotto assedio i listini. D’altra parte un monito l’ha già lanciato Moody’s, che vede nella crisi di liquidità la possibilità che un mega hedge fund vada a picco con ripercussioni anomale sui mercati. Dobbiamo prepararci ad altre turbolenze? La storia non è così semplice. «Non sono d’accordo con Moody’s – afferma Grazia Orlandini, responsabile investimenti di Mps Alternative – la crisi c’è ora. Il mercato si sta stabilizzando, a meno che la Fed non cambi atteggiamento. Molti hedge hanno già delevereggiato, la possibilità di ulteriori problemi potrebbe arrivare eventualmente solo dai riscatti che inizieranno a vedersi in maniera consistente a dicembre».

I primi rimborsi sul fronte dei fondi italiani (soprattutto fondi di fondi) che in generale hanno una tempistica mensile inizieranno, però, a emergere già da ottobre. Poi, tra novembre e dicembre arriveranno anche quelli dei fondi esteri. «Tuttavia va tenuto in conto – continua Orlandini – che, nel complesso, il saldo finale per l’investitore è dato sì dalle perdite di questo mese, ma anche dai buoni guadagni precedenti. In luglio l’industria hedge e i mercati hanno tenuto. Così le perdite sono state compensate, in un contesto in cui tutte le asset class sono scese». Ma è chiaro che, per liberarci completamente dell’incubo default dovremo attendere almeno fino alla fine dell’anno. Tuttavia, prima di emettere sentenze e farsi prendere dal panico è bene capire dove nascono i rischi e perché.

NON È SOLO LA LEVA. Sotto il nome di Hedge Fund finisce un po’ di tutto. Proprio per la loro stessa natura di «strumenti non tradizionali e non regolamentati». Si apre qui un secondo problema di trasparenza per l’investitore privato (il quale in Italia, vale la pena ricordare, ha una soglia minima d’ingresso di 500mila euro) che, vista la complessità dei prospetti e degli strumenti in portafoglio, difficilmente può essere veramente consapevole del tipo di rischio che assume. Quindi, meglio osservare con attenzione chi si ha davanti.

«Chi ha sofferto di più – afferma Massimo Maurelli, presidente per l’Italia di Aima (associazione non profit internazionale per l’industria degli hedge fund) – sono quei fondi che, pur chiamandosi hedge, in realtà fanno prevalentemente attività di carry trade (e non di hedging) e che in più hanno usato molta leva». Sì, perché il carry trade si fa con le valute, ma anche con i derivati di credito, come i Cdo. Se il derivato, per esempio, mi dà una cedola del 5% e il finanziamento mi costa il 4% ho un margine dell’1% che diventa del 20% se vado 20 volte a leva. Negli ultimi tre anni questa tipologia di hedge ha guadagnato molto ma, quando i subprime hanno iniziato a scricchiolare, la leva è risultata fatale.

È stato il caso dei fondi Bear Stearn. «La casa d’affari – spiega Grazia Orlandini – aveva verosimilmente una quota limitata del portafoglio allocata in subprime ma con una leva significativa. Il che vuol dire che le perdite derivanti da esposizioni ridotte sono amplificate dall’effetto moltiplicatore della leva ». D’altra parte il deteriorarsi dei subprime era già noto da tempo e l’assunzione di rischio è stata diversa nei singoli fondi. «Ecco perché – continua Orlandini – è bene fare distinzioni tra hedge e hedge. L’hedge fund Paulson, per esempio, prevedendo le difficoltà del comparto in America aveva già da più di due trimestri assunto posizioni corte sui subprime».

E molti fondi hanno persino guadagnato. «Non è un’industria regolamentata. Molto dipende dall’investitore che farebbe, però, meglio a passare per le liste “approved” degli esperti: negli hedge la selezione è più difficile perché il rischio non è rappresentato dal rapporto rendimento/volatilità». Antonio Foglia, direttore di Banca del Ceresio, per esempio, sulle pagine dei Quaderni Aiaf (una pubblicazione dell’associazione degli analisti finanziar) distingue più in generale tra hedge direzionali e non direzionali. «Per quanto riguarda i fondi direzionali – scrive Foglia – non abbiamo notato negli ultimi anni assunzioni di rischi significativamente diversi da quanto frequentemente visto nel passato». Con l’eccezione dei fondi activist, in genere più aggressivi, che costruiscono posizioni illiquide (difficili da vendere), problematiche in caso di riscatti. Un rischio che riguarda anche le strategie di arbitraggio messe in atto dagli hedge più market oriented (non direzionali): gli arbitraggi hanno quasi sempre all’attivo investimenti meno liquidi di quelli al passivo e tutti gli operatori sono prevalentemente posizionati in modo omogeneo.

IL NODO LIQUIDITÀ. Un problema che si è palesato proprio quando, con le difficoltà del mondo subprime, i Cdo in cui erano stati impacchettati i mutui non riuscivano più a essere venduti né prezzati. Il motivo? Nessuno sapeva, data la complessità di questi strumenti, cosa avrebbe comprato esattamente. «Così i fondi – afferma Bestetti – si sono trovati con titoli che non riuscivano a vendere o che venivano pagati la metà del loro valore e con un uso della leva che amplifica le perdite». E, per riuscire a far fronte agli impegni finanziari, sono stati costretti a vendere anche altri asset come gli azionari, su cui già pesava l’incertezza subprime. «La crisi generalizzata – dice Orlandini – è dipesa anche da alcuni prime broker che di fronte al caso Bear Stearns e, poi, al congelamento dei riscatti di Bnp Paribas si sono fatti prendere dal panico e hanno richiamato indistintamente le linee di credito». Non tutti i fondi però sono dovuti rientrare precipitosamente, qualcuno ha negoziato e altri avevano contratti blindati sulle linee di credito.

L’EFFETTO DOMINO. «Con la vendita indiscriminata sull’equity e l’aumento dell’avversione al rischio – spiega Orlandini – c’è stato un effetto a catena. Prima hanno iniziato a soffrire i fondi quantitativi (tra cui Goldman Sachs, ndr). Questi, che avevano posizioni di arbitraggio sui fondamentali delle aziende, hanno ridotto le loro esposizioni, aggravando così le perdite dei listini». Un trend che, a sua volta, ha colpito i fondi con strategia Long/Short e gli Event driven (cioè i prodotti che scommettono soprattutto sull’M&A). Appare chiaro che il problema della liquidità va ben oltre gli hedge. Ma chiama in causa anche il ruolo delle investment bank. Secondo Foglia, «nelle fasi di volatilità dei mercati degli ultimi anni la liquidità, e in particolare quella dei derivati Otc (tra cui i Cdo, ndr), dipende in maniera cruciale dalla disponibilità delle poche investment bank», attive in qualità di prime broker (cioè finanziano gli hedge).

Queste investment bank, però, spesso hanno una esposizione al rischio sul mercato simile a quella degli hedge e operano con una leva finanziaria maggiore di quella dei fondi speculativi. Paradossalmente, gli hedge potrebbero essere loro stessi gli attori della stabilizzazione dei derivati di credito. Tra i banchieri di Lugano c’è chi pensa di creare degli hedge che sfruttino le inefficienze di prezzo dei derivati create dal panic selling. «Il vero problema per una grande bolla – afferma Maurelli – è che nei portafogli di banche e investitori istituzionali di tutto il mondo, ci sono trillioni di dollari di derivati di credito che sono difficilmente vendibili».

Come mai? In realtà per i Cdo non esiste un efficace sistema per determinarne il prezzo. «Il rischio per una crisi sistemica potrebbe quindi nascere se gran parte di queste posizioni dovessero venire smobilitate». Un processo che non è ancora iniziato. A ben vedere gli hedge, seppure con i loro problemi di opacità, stanno già affrontando il problema. Ma che dire di tutti quei soggetti (come per esempio le «normali» banche), magari contagiati dal virus subprime, che hanno sì obblighi di comunicazione ma non sono in grado di rivelare in tempo la «malattia». «Il problema dei Cdo – afferma Orlandini – non è ancora emerso nelle sue dimensioni». Appare evidente il nodo più delicato: nessuno sa dove sono i potenziali rischi. E, di fronte a soluzioni di regolamentazione e autoregolamentazione che a molti appaiono difficilmente percorribili, si pone la questione di una migliore informazione.

Copyright © Bloomberg – Borsa&Finanza. Riproduzione vietata. All rights reserved