(WSI) – Contava ben 1.929 parole, il 24 settembre, la lettera a ‘la Repubblica’ con cui Romano Prodi è tornato a rivendicare i pieni poteri sull’Ulivo. Fra di esse, però, ne mancava una importante: la parola riformismo. Proprio quella con cui si autodefinivano i partiti della lista unitaria voluta dal Professore. Prodi ha scritto di “progetto riformatore”, di “schieramento riformatore”, di “forze riformatrici” (quattro volte) e di “opposizione riformatrice”, mai di riformismo. E la studiata omissione dava l’idea del baratro apertosi fra l’uomo e i suoi gelidi sostenitori.
Che Prodi fosse furioso era ovvio. I sedicenti riformisti, cioè Ds, Margherita, Sdi, Repubblicani europei, lo stavano prendendo in giro. Avevano deciso di non varare immediatamente la Federazione dell’Ulivo; di presentarsi separati alle regionali del 2005; di rinviare di oltre un anno le primarie per scegliere il comune candidato premier alle politiche del 2006. Il contrario di ciò che Prodi auspicava. Era la fine di un disegno coerente, che vedeva nella costituenda Federazione “il nocciolo duro di una grande alleanza democratica” con le sinistre radicali.
Ma che senso aveva la rabbiosa esternazione su ‘la Repubblica’? Più che l’avvio di un vittorioso braccio di ferro con gli interlocutori, essa ha segnato per Prodi una confessione di debolezza. Un vero leader non chiede di continuo ai suoi seguaci di essere riconosciuto tale: lo è e basta.
Il Professore capiva che il suo ruolo era quello del primus inter pares, non del condottiero; e non gli piaceva. Ma con la sua reazione ha dimostrato scarso realismo. Il suo status non era uno scherzo del destino, bensì una normale conseguenza della configurazione dell’Ulivo. Una coalizione di tanti partiti e partitini non poteva delegare tutto a un autocrate che pretendeva mano libera su ogni scelta: programma, organigrammi, candidature alle Regioni e al Parlamento. Prodi non aveva neppure un retroterra suo, avendo perso a beneficio di Francesco Rutelli il controllo della Margherita.
Volendo a tutti i costi essere lui l’anti-Berlusconi, Prodi avrebbe potuto fare di necessità virtù e vestire i panni del mediatore di rango fra formazioni diverse. Se la parte gli fosse parsa inaccettabile, perché non lanciare un ultimatum autentico, minacciando di gettare la spugna qualora entro pochi giorni non fosse nata una Federazione ricca di “autorità, poteri, strumenti operativi”?
Prodi si è fermato a metà strada, non adeguandosi ai rapporti di forza esistenti ma nemmeno ponendo l’aut aut più brutale: o si cambia come voglio io, oppure mi ritiro. Così la sua lettera, anziché portare a un chiarimento definitivo, ha sortito l’effetto di esaltare l’insopportabile tendenza dell’Ulivo alla discussione senza fine dei propri problemi interni.
ll guaio è che Prodi ha dato spesso l’impressione di agire sotto la spinta di motivazioni personali, come la volontà di vendicarsi della defenestrazione da Palazzo Chigi nel 1998. Ha sprecato tempo prezioso nell’escogitare meccanismi tipo le primarie che gli dessero una legittimazione popolare, svincolandolo dai partiti e mettendolo al riparo da eventuali ribaltoni. Anche qui, però, ha offerto una prova di ingenuità: nel sistema italiano, dove i parlamentari non hanno alcun vincolo di mandato, un governo è sempre esposto al rischio di qualche trabocchetto. Una leadership va esercitata giorno dopo giorno. Chi insiste nell’esigere garanzie per sé non fa che rivelare insicurezza.
Ecco perché Prodi, con i ricorrenti mugugni verso gli alleati, ha finito per danneggiare la propria stessa causa: è apparso sospettoso, condizionato da recriminazioni e rancori, noioso, privo di quella solarità confidente che è tipica dei capi. E ha danneggiato anche l’Ulivo, al pari dei capetti che cercavano di ridurlo a loro fiduciario.
Che fare adesso? Sperare in un generale rinsavimento è inutile: quando mai Rutelli e il Professore collaboreranno felici? Ci saranno altri battibecchi, altri colpi bassi, altre effimere tregue. Si perpetuerà lo spettacolo avvilente dell’ultimo anno: tutti inneggiavano a Prodi, ognuno in cuor suo era convinto che fosse bollito.
Per l’Ulivo il male minore, a questo punto, è fare subito le primarie. Ma farle sul serio, evitando la pagliacciata di un concorrente unico: con i Fassino e i Rutelli che si candidano, con i D’Alema e i Veltroni e gli Amato. Scorrerebbe il sangue per un po’, come ha detto Prodi, ma poi si imporrebbe un vincitore a prova di chiacchiericcio. E forse un Silvio Berlusconi in declino non potrebbe più salvarsi grazie alla stupidità dei suoi avversari.
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