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(WSI) –
Si continua a parlare e a scrivere di crisi Telecom. Se ne parla esattamente da dieci anni ma in realtà una crisi Telecom non c’è mai stata. L’azienda va bene, produce profitti, ha un “cash-flow” di tutto rispetto, possiede un cospicuo portafoglio di partecipazioni all’estero (soprattutto in Brasile) e rapporti industriali assai interessanti con altre società telefoniche europee in Germania, Francia, Spagna.
Diciamola tutta: i guai di Telecom cominciano da quando è stata privatizzata e ha avuto la sventura di diventare la preda di un capitalismo straccione, più attento a spolpare il grasso che ad investire in prodotti e tecnologie.
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Non tutto il capitalismo italiano naviga a questo infimo livello, ma buona parte purtroppo sì. La regola prevalente è quella di arricchire i “predatori” a danno dell’azionariato diffuso e non organizzato, una maggioranza polverizzata e quindi priva di qualunque potere. Gli strumenti per tenerla al guinzaglio sono vari ma con identiche finalità: scatole cinesi, patti di sindacato, contratti di Borsa speciali, rapporti privilegiati con gruppi bancari. Il fine è sempre quello: spolpare l’osso, lesinare sugli investimenti, privilegiare i dividendi, i compensi ai dirigenti, le “stock-option” agli amministratori e utilizzare la società-preda come fonte di potere politico e mediatico.
Questo è uno dei connotati del capitalismo italiano che ha avuto come risultato la segmentazione del mercato in tanti recinti separati tra loro.
Esiste ancora un mercato, si domandava pochi giorni fa Guido Rossi? E rispondeva: no, non esiste più. Forse non è mai esistito perché non c’è mai stata una griglia di istituzioni capace di rappresentare e difendere quella maggioranza azionaria polverizzata e senza voce, non a caso definita come “parco buoi” da portare al mattatoio.
Volete l’ultimo esempio, il più recente e uno dei più scandalosi? Ce lo sta dando Marco Tronchetti Provera. Tra la sua società personale e la Telecom ci sono a dir poco sette società intermedie, la penultima delle quali si chiama Olimpia che controlla Telecom con il 18 per cento del capitale. Quel 18 per cento detta la legge ad una maggioranza polverizzata dell’82 per cento. I soldi propri impegnati da Tronchetti in tutta l’operazione equivalgono allo 0,6 per cento del capitale Telecom.
Come lo chiamereste un fenomeno di questo genere se non la moltiplicazione dei pani e dei pesci? Il miracolo compiuto da Gesù di Nazareth aveva come fine quello di sfamare il popolo che si era radunato per sentire la sua parola.
Quello di Tronchetti serve ad alimentare il “predatore”. Il quale ha deciso ora di cedere il comando su Telecom senza nemmeno lanciare un’Opa e intascando a proprio esclusivo beneficio il premio di maggioranza.
Montezemolo raccomanda: lasciate fare al mercato. Ma questo è un mercato? Questa è la giungla dei predatori e delle prede, degli interessi protetti e di quelli polverizzati e indifesi. Il riformismo in Italia avrebbe dovuto misurarsi con questo problema che doveva essere il primo nell’ordine delle priorità. Ma finora ha parlato d’altro e neppure la crisi in corso sembra averne risvegliato l’attenzione.
Neanche il club Giavazzi, per dire gli economisti puri e duri, hanno questo tema nelle loro priorità. In dieci anni di pubblicistica ne avranno parlato sì e no un paio di volte. Così il miracolo profano della moltiplicazione di pani e pesci continua. Io lo chiamo una vergogna, non un mercato.
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Quando cinque anni fa Tronchetti conquistò Telecom rilevandone il controllo dal gruppo di Gnutti e di Colaninno, pagò salato: 4,50 euro per azione. Esce un predatore, ne entra un altro. Perché pagò un prezzo così elevato? Riteneva che il monopolio privato della telefonia fissa e mobile fosse l’affare del secolo. Dove prese il denaro necessario? Dal debito e dalla successiva vendita della parte manifatturiera della Pirelli. E naturalmente dalle complicate architetture di controllo che lo portarono con poca spesa propria alla guida della società più importante del paese.
Il ritorno d’immagine fu formidabile. Si cominciò a parlare di Tronchetti Provera come della stella nascente del capitalismo italiano, il successore di Gianni Agnelli, con lo stesso “glamour” dell’Avvocato, la stessa eleganza, le stesse barche e soprattutto la stessa vocazione di guardare lontano, di volare alto, di guidare con l’incoraggiamento e l’esempio i destini dell’industria e degli imprenditori.
Partecipava a tutti i salotti buoni frequentati dai “vested interests”: il consiglio di Mediobanca, il consiglio della Rizzoli-Corriere della Sera, il direttivo di Confindustria di cui è vicepresidente. All’occhiello della giacca c’era scritto Telecom e questo bastava. Le sue “stock option” raggiungevano cifre incredibili. I debiti? Nessuno chiedeva notizie dei debiti, ciascuno in quei salotti badava ai propri e non s’impicciava dei fatti degli altri. Si pagò anche una televisione di prestigio, con pochissima diffusione (il 2 per cento dell’audience) ma potenzialmente in attesa di diventare il terzo polo televisivo italiano.
“Aspetta e spera che poi s’avvera” cantava Arbore con “Quelli della notte”, e sembrò lo slogan de La 7. Ma da un certo momento in poi i nodi cominciarono a venire al pettine. Le banche creditrici mandarono qualche avviso. I vari scandali Parmalat, Cirio, bonds argentini, crearono difficoltà non lievi a Geronzi e a Banca Intesa. Le fusioni impegnarono a lungo (e tuttora impegnano) l’intero sistema.
E fu così che il “retour a’ l’ordre” investì anche la Pirelli e Tronchetti che tardivamente capì di essere entrato in una partita più grossa di lui. Da quel momento il suo problema dominante fu quello di rientrare nel suo, vendere il pacco di controllo Telecom, capitalizzare il premio di maggioranza, scaricare i debiti sul compratore e rientrare in campo su qualche altra preda, magari più piccola e più digeribile ma egualmente “glamour”. Per un momento quella preda prese le sembianze del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera.
L’essenziale comunque era di trovare un compratore disposto a pagare un prezzo d’affezione: l’azione Telecom valeva in Borsa poco più di 2 euro; lui l’aveva pagata più del doppio. Ma per riposizionare la Pirelli gli bastava incassare un prezzo di 3 euro. Perciò si mise in cerca.
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Nel frattempo era entrato in rotta di collisione con Prodi. Siamo al settembre dell’anno scorso. Prodi è messo al corrente dei guai di Pirelli e della decisione di Tronchetti di vendere all’estero la rete telefonica di Telecom e insieme ad essa la partecipazione nella Telefonica brasiliana e la telefonia mobile. Lo spezzatino che si profila non piace affatto al presidente del Consiglio che cerca d’impedirlo. La crisi tra i due scoppia con estrema violenza e accresce il gelo tra Tronchetti e il sistema bancario, senza la cui sponda il “patron” della Pirelli sarebbe – come si dice un po’ ruvidamente in questi casi – alla canna del gas.
A questo punto il colpo di coda che è una delle specialità di Tronchetti: si dimette dal consiglio Telecom e chiama a sostituirlo Guido Rossi, in quel momento ancora commissario della Federcalcio ma ormai alle ultime battute d’un tentativo di ripulire il calcio italiano rivelatosi impresa impossibile per la cosiddetta “resistenza degli aggregati” cioè di tutti gli interessi corporati che fanno del fortilizio calcistico un centro di malaffare pressoché inespugnabile. Guido Rossi accetta di trasferirsi da Federcalcio a Telecom. Non sa ancora che sta cadendo dalla padella nella brace.
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Guido Rossi lo conosco bene dagli anni in cui eravamo giovani e lottavamo, lui sulle riviste giuridiche e nelle aule dei tribunali ed io con libri e campagne giornalistiche, contro le malformazioni del capitalismo italiano e i loro deleteri riflessi sulle istituzioni democratiche. Ci erano autorevoli compagni in quelle battaglie Bruno Visentini, Tullio Ascarelli, Ugo La Malfa, Adolfo Tino, Ernesto Rossi. Insomma il pensiero liberal – radicale degli anni Cinquanta-Settanta.
Il Guido Rossi di oggi non è più quello di allora. Ha mantenuto ferma la bussola della difesa del mercato e della libera concorrenza ma l’ha tradotta in pratica accettando incarichi prestigiosi da usare come terreno d’azione. E’ stato presidente della Consob appena fondata; Cuccia lo portò al vertice della Montedison quando si rese conto che il gruppo Ferruzzi aveva clamorosamente mancato l’obiettivo di risanare quell’azienda devastata dopo il passaggio di Eugenio Cefis. Ha poi guidato la privatizzazione di Telecom ed ora era di nuovo lì.
Nel frattempo il giovane avvocato è diventato un autorevole consulente dei maggiori gruppi finanziari e con suo ingegno si è creato una cospicua fortuna personale. Eppure tante esperienze non gli hanno evitato alcune ingenuità come nel caso Federcalcio e in quello Telecom.
Inclino a pensare che la causa di questi suoi errori sia una sua eccessiva presunzione intellettuale che lo rende sicuro di dominare gli eventi, gli interessi, le persone con le quali entra in conflitto e il malaffare che si annida in molte giunture del capitalismo. Ma questo comunque non ci interessa in questa sede.
Il conflitto Rossi-Tronchetti, detto in breve, è stato il reciproco e simmetrico tentativo di entrambi di gabbare l’altro sotto le parvenze della collaborazione. Rossi voleva incanalare Telecom nello schema della “public company”, un’azienda guidata dal management, controllato dai sindaci, dai fondi di investimento e da altri investitori istituzionali. Senza scatole cinesi, senza patti di sindacato, senza “noccioli duri” che arraffano il potere senza rischiare i propri soldi.
Tronchetti voleva esattamente l’opposto. Questo “marché de dupes” è durato sette mesi alla fine dei quali Tronchetti ha prodotto il suo ennesimo colpo di coda: ha venduto il comando di Telecom agli americani di AT&T e ai messicani di American Movil, ha licenziato Rossi dalla presidenza di Telecom, ha obbligato le banche a scendere a patti. E sta per incassare il suo prezzo e il suo premio di maggioranza alla faccia della maggioranza dispersa e senza voce degli azionisti di Telecom e di Pirelli. Dopo averlo licenziato ha offerto a Rossi una consulenza miliardaria, ovviamente rifiutata. Però ci ha provato.
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C’è qualche cosa da dire sul sistema bancario che ancora potrebbe – se lo volesse – fermare lo spezzatino telefonico. Il problema infatti è questo, non l’italianità di Telecom.
Ma per ottenere un risultato le banche dovrebbero procedere unite, affrontare Tronchetti, negoziare con i suoi interlocutori americani e con altri possibili imprenditori italiani e stranieri, lanciare un’Opa su Telecom. I mezzi per impedire lo spezzatino ci sono e si trovano, ma la condizione primaria è l’unità del sistema, che invece manca del tutto. Mediobanca si è dedicata da poco al credito di consumo.
Come banca d’affari accetta solo di occuparsi di transazioni di immediato profitto. Il resto non le interessa. Capitalia ha in mente di rafforzare la sua presa su Generali e sulla stessa Mediobanca. Unicredit accumula profitti su profitti, si espande all’estero, non ha gradito la nascita del gigante Intesa-San Paolo, disdegna operazioni di pubblico interesse non motivate da profitti visibili.
Intesa-San Paolo aveva tentato qualche mese fa un’operazione comune per estromettere Tronchetti al prezzo di 2,50 euro. Più del valore di Borsa, meno del prezzo offerto ora dagli americani. Non fu seguita da Mediobanca e dai banchieri che la fiancheggiano. Adesso l’istituto di Bazoli e di Passera sta negoziando con AT&T e con i messicani per ottenere una quota di Olimpia (cioè del controllo su Telecom) che abbia potere di veto su alcune operazioni strategiche. Par difficile che ci riesca. Tutt’al più otterrà qualche briciola per salvare la faccia della controparte italiana, ma niente di più.
Soprattutto niente di più dai messicani, che comprano Telecom per portarsi via la Telefonica brasiliana. Lo spezzatino, appunto. Ci sono ancora trenta giorni di tempo, ma il destino sembra già segnato. Qualcuno del centrosinistra presenterà una legge che renda impossibile per il futuro la vergogna di controllare una grande impresa senza esporsi con danaro proprio? La presenterà Tabacci che vorrebbe rappresentare la coscienza liberale del centrodestra? La presenterà Giavazzi? Un tempo gli “Amici del Mondo” queste cose le facevano. Ma oggi evidentemente sono passate di moda….
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