Dolore, emozioni e sorprese: gli avvenimenti che hanno segnato l’economia italiana negli ultimi giorni suscitano sentimenti diversi e commenti contrapposti. Due considerazioni. La prima riguarda il ruolo e il futuro del capitalismo familiare dopo la prematura scomparsa di Umberto Agnelli. Come ha scritto subito su La Stampa Luigi La Spina, la famiglia torinese ha compiuto una scelta coraggiosa e chiara, senza sottrarsi ai propri impegni. Non è poco in un Paese nel quale si discute da mesi (ma per quanto tempo ancora, fino al prossimo scandalo?) una legge a tutela del risparmio resa necessaria dai giganteschi dissesti del cosiddetto «capitalismo familiare amorale».
Ed è di conforto pubblico sapere che la deriva dell’imprenditoria «caraibica», amante dei paradisi fiscali, è contrastata da esempi di responsabilità, rigore e discrezione. Ciò non equivale a una rivalutazione acritica della funzione delle famiglie nelle imprese o tacere le degenerazioni che portano alcune di queste a esercitare, con l’ausilio di sofisticate scatole cinesi, un potere non proporzionale al capitale investito e smisuratamente maggiore di quello dei piccoli risparmiatori. Né rivalutare i bizantinismi legali dei patti di sindacato.
Ma occorre dire che nella difesa della distinzione fra i ruoli di presidente e amministratore delegato, nel caso Fiat, si è applicata nient’altro che una moderna regola di corporate governance. Nulla di feudale, anzi. E che gli esempi di vertici aziendali in cui i manager convivono, e concretamente, con membri della famiglia di controllo, sono numerosi nel mondo. Ricordava sul Corriere Roger Abravanel di McKinsey che il 40% delle imprese europee è a controllo familiare, ma senza patti di sindacato e scatole cinesi.
Seconda considerazione. Nel rilancio della concertazione, proposto da Montezemolo, nelle critiche di Fazio alla politica economica, nell’intervento di Bazoli in Banca d’Italia critico verso il governo, molti osservatori hanno intravisto il segnale di uno spostamento a sinistra dell’establishment, soprattutto industriale e finanziario.
L’insoddisfazione c’è, ed è palpabile. La delega in bianco, un po’ frettolosa, che l’industria diede a Berlusconi nel celebre convegno di Parma del 2001 è stata di fatto ritirata. Ma non si scorgono aperture reali e significative verso l’opposizione, peraltro priva di una proposta convincente e condivisa (il programma redatto da Amato è semiclandestino e molte sue idee sono indigeste alla sinistra più radicale). Se si applicassero poi tutte le proposte di Montezemolo e di Fazio è dubbio che il centrosinistra applaudirebbe mentre il sindacato scenderebbe subito in piazza. E le parole di Bazoli, preoccupato di una eventuale sottomissione del sistema bancario al governo, sarebbero state ugualmente nette con un diverso esecutivo.
I luoghi comuni sui poteri forti resistono al tempo. Fanno parte di un’immagine suggestiva, intrigante. La ricorda Berlusconi, quando individua una barriera dei media che gli impedirebbe di parlare meglio al Paese, la impiega D’Alema per denunciare un presunto complotto finanziario ed editoriale contro Prodi. La realtà, assai modesta e cruda, è che quei poteri sono molto meno forti di una volta. Un guaio, non solo per loro ma anche per il Paese.
Hanno perso peso specifico all’estero, soffrono la riduzione del numero di grandi imprese, hanno usato troppo la leva del debito, dipendono più dalle tariffe (ex monopoli pubblici) che dai prezzi (del mercato aperto). In un mondo globale si sono paradossalmente legati di più alle dinamiche domestiche. Pagano (giustamente) i loro errori. Se la politica esprimesse disegni chiari e alternativi sulla società del futuro e sulle specializzazioni produttive, una scelta la potrebbero anche compiere. Oggi no: hanno sul tavolo solo offerte confuse o clientelari.
Copyright © La Stampa. Riproduzione vietata. All rights reserved