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POSTI DI LAVORO USA, SOFFIA IL VENTO PROTEZIONISTA

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Negli Stati Uniti l’emigrazione dei posti di lavoro verso i paesi a bassi salari è diventato un tema centrale della campagna elettorale in vista delle elezioni presidenziali del prossimo mese di novembre. Nelle primarie democratiche si è infatti creata una specie di competizione tra i candidati su chi presenta le più credibili proposte per frenare la fuga dei posti di lavoro.

Il mettersi in sintonia con le preoccupazioni degli americani per la crescente insicurezza dell’impiego appare a tal punto pagante elettoralmente che leaders del partito repubblicano hanno chiesto le dimissioni di Gregory Mankiw, presidente dei consiglieri economici di Bush, per avere affermato che «se un servizio può essere fornito meglio e a un prezzo inferiore all’estero, l’economia americana ne trarrà beneficio».

C’è dunque da domandarsi come mai queste tematiche sono oggi centrali nel dibattito politico statunitense e quali potrebbero essere le conseguenze per il processo di globalizzazione. La sensibilità dei cittadini americani è dovuta innanzitutto al fatto che l’attuale forte espansione economica non si sta traducendo in un significativo aumento di nuovi posti di lavoro. Infatti, da quando George Bush è entrato alla Casa Bianca il numero degli occupati è diminuito di 2,3 milioni di unità. Ma c’è di più.

Secondo i calcoli di Steven Roach di Morgan Stanley, durante i primi 26 mesi questa ripresa ha evidenziato un’incapacità senza precedenti di creare nuova occupazione, a tal punto che, secondo l’economista della banca americana, se si paragona con i precedenti cicli, all’appello mancano ben 8 milioni di posti di lavoro. Questi dati non sono controversi. Controverse sono le cause di questo fenomeno. Le correnti di pensiero principali sono sostanzialmente due.

La prima è che la scarsa prolificità di posti di lavoro di questa ripresa è dovuta al forte aumento della produttività registrato negli ultimi anni dall’economia statunitense. Dunque, la debolezza della ripresa fa sì che le società americane sono in grado di soddisfare l’aumento della domanda di prodotti e di servizi senza ricorrere a nuove assunzioni. Quindi, c’è solo da avere pazienza, poiché tra poco tempo l’economia statunitense si rimetterà a creare centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro, ed è dunque sbagliato addebitare all’emigrazione dei posti di lavoro la responsabilità delle attuali difficoltà.

Anzi, l’economia americana è destinata a trarre grande beneficio dalla sua apertura, poiché sul lungo termine la competizione internazionale riduce i costi e i prezzi e, quindi, aumenta il potere d’acquisto e il tenore di vita dei consumatori statunitensi. La seconda corrente di pensiero parte da un presupposto completamente diverso. Il raddoppio delle dimensioni del mercato del lavoro internazionale dovuto all’entrata in campo di milioni e milioni di cinesi ed indiani ha un effetto deflazionistico sui prezzi e sui salari dei lavoratori americani.

Questo effetto non è più limitato unicamente ai dipendenti del settore industriale, ma si è esteso anche ai cosiddetti «colletti bianchi», ossia al settore dei servizi che dà lavoro all’80% degli americani. Infatti, il fenomeno dell’outsourcing ha fatto sì che il lavoro dei programmatori informatici, degli analisti finanziari e così via, viene trasferito soprattutto in India, dove viene svolto a costi nettamente inferiori a quelli americani. Il risultato finale è una forte pressione deflazionistica, che fa sì impennare la produttività, ma che deprime livelli salariali e occupazionali negli Stati Uniti.

Sui vantaggi a lungo termine di questi fenomeni si invoca la famosa frase di Keynes, secondo cui «nel lungo termine saremo tutti morti». A questo punto il conflitto diventa tra economia e politica. Il ciclo politico delle elezioni americane non può aspettare di attendere i risultati di lungo termine dell’aggiustamento economico provocato dalla globalizzazione.

Inoltre, la scarsa creazione di nuovi posti di lavoro e le paure dei «colletti bianchi» americani diventano un elemento centrale nel dibattito politico, a tal punto che il Congresso ha già votato una legge che vieta l’assegnazione di appalti pubblici a società che ricorrono all’outsourcing in paesi a bassi salari, a tal punto che provvedimenti analoghi sono stati già adottati da numerosi Stati americani e a tal punto che i due candidati oggi in testa nelle primarie democratiche hanno già promesso di voler rivedere gli accordi commerciali finora sottoscritti dagli Stati Uniti e a non firmarne nuovi se non saranno inserite clausole a protezione dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori.

Tutto ciò spinge molti analisti a ritenere che il clima politico negli Stati Uniti nei confronti della globalizzazione stia rapidamente mutando e che il movimento protezionista ha il vento in poppa. In questo contesto politico si aprono due pericolosi conflitti commerciali tra Stati Uniti ed Unione Europea. Infatti il prossimo primo marzo dovrebbero cominciare a scattare le ritorsioni europee, avvallate dall’Organizzazione mondiale del commercio, sulle agevolazioni fiscali alle esportazioni americane. Gli Stati Uniti si erano impegnati a rivedere queste norme, ma il Congresso non è riuscito a varare una riforma.

Nei piani di Bruxelles le sanzioni commerciali dovrebbero cominciare quest’anno da circa 200 milioni di dollari per poi aumentare gradualmente per arrivare a 4 miliardi di dollari. Il rappresentante commerciale dell’amministrazione Bush, Robert Zoellick, si è affrettato a dichiarare che le sanzioni equivalgono a una «bomba atomica» sull’interscambio commerciale. A questo contenzioso se ne aggiunge un secondo, dovuto alla recente decisione dell’OMC di dichiarare illegali le leggi antidumping americane. Questo confronto con l’Europa si sovrappone dunque al dibattito negli Stati Uniti sulla perdita dei posti di lavoro.

Non è quindi azzardato ipotizzare che il vento protezionistico sia destinato a gonfiarsi ulteriormente, poiché alla ripresa che non crea nuova occupazione e all’emigrazione dei posti di lavoro verso i paesi a bassi salari si aggiungono il crescente deficit della bilancia commerciale statunitense, la debolezza del dollaro e la crescente dipendenza degli Stati Uniti dai finanziamenti di Giappone e Cina. È quindi probabile che il confronto tra le ragioni della politica e quelle dell’economia si concluda con il prevalere delle prime.

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