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Poltronesofà e legge Fornero: chi non firma questionari subito licenziato

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Roma – Scrive Antonio: «Devo presentarmi a una commissione del ministero del Lavoro a Roma per certificare il contratto di associazione in partecipazione. Ma le condizioni scritte sul contratto non sono quelle lavorative». Rileva Giorgia: «Lavoro per Poltronesofà. Qui siamo tutti assunti con il contratto di associazione in partecipazione. Quelli che non hanno firmato la certificazione proposta dall’azienda sono “spariti” dalla sera alla mattina. Licenziati».

L’OBBLIGO – Denuncia Sabrina: «Ci hanno obbligato a firmare, pena il licenziamento immediato. Cosa dovevamo fare? Ci siamo turati il naso e siamo andati a Forlì (il quartier generale dell’azienda, ndr), tutti tranne una che si è rifiutata. Ora è a casa». Rincara Michele: «Dal 9 luglio ci hanno mandato dei questionari nei quali si doveva rispondere “correttamente” . In realtà lavoriamo sette giorni su sette, alcune volte con orario continuato. Dove sono le leggi che ci tutelano?».

IL CASO – Antonio, Giorgia, Michele e Sabrina sono nomi di fantasia, ma celano altrettante identità. Hanno scritto (anche sotto anonimato) alla Filcams Cgil, la categoria confederale del commercio e turismo del sindacato guidato da Susanna Camusso, e alla Nidil, che invece si occupa di rappresentare (e tutelare) chi ha un contratto atipico e ha lanciato da tempo la campagna «Dissociati» per sensibilizzare i lavoratori.

Antonio, Giorgia, Michele e Sabrina sono 4 degli oltre 120 «soci» di Poltronesofà in tutta Italia, storica azienda di arredamento (ricordate lo spot pubblicitario con Sabrina Ferilli?). Titolari del contratto di associazione in partecipazione, quella diavoleria (come da più parti è stata definita) frutto della iper-flessibilità del mercato del lavoro retaggio di altre stagioni politiche e ora apertamente sconfessata dalla riforma targata Fornero, che infatti ne ha imposto limiti molto più stringenti (possono essere contrattualizzati con questo particolare istituto giuridico al massimo tre per azienda, salvo – appunto – la possibilità di certificare fino a scadenza i contratti già in essere).

I VINCOLI – La riforma ha imposto anche precisi limiti di orario, soprattutto subordinando questo schema a un lavoro effettivamente di natura autonoma, in cui il socio/titolare di un punto vendita (è uno schema replicato anche da diverse griffe dell’abbigliamento low-cost) sia effettivamente il «dominus», abbia la possibilità di fare delle scelte imprenditoriali (ad esempio in termini di assortimento e vetrina), non sia vincolato a degli orari stabiliti dalla casa madre a patto che partecipi agli utili, come alle perdite dell’azienda se le cose non dovessero andare nel verso giusto.

L’EPISODIO – Il caso è deflagrato perché Poltronesofà – dice la Cgil – avrebbe licenziato tre lavoratrici di Torino che non avrebbero accettato il «ricatto della certificazione», apponendo la loro firma su delle condizioni evidentemente ritenute fittizie.

Dice Daria Banchieri, Filcams Cgil, che «l’azienda pretendeva che fossero le stesse lavoratrici a confermare, con questionario già pre-compilato dal datore di lavoro e falsando la realtà, che il loro rapporto di lavoro rispondeva alle caratteristiche di autonomia previste dalla legge per l’associazione in partecipazione. A fronte della loro indisponibilità, Poltronesofà ha risposto con il recesso immediato dal contratto».

Per questo la Filcams ha inviato nei giorni scorsi una lettera alla direzione dell’azienda per chiedere l’apertura di un tavolo di confronto, annunciando di voler impugnare tutte le eventuali certificazioni di associazione in partecipazione, «forti anche del fatto che le precedenti certificazioni di rapporti di lavoro para-subordinato sono state ritenute nulle dal giudice».

LA FINESTRA – Eppure – di fronte alla presunta forzatura aziendale – rileva la Banchieri che una parte della colpa è da ascrivere alla riforma Fornero, che «non ha previsto un periodo-finestra in modo da dare il tempo alle imprese di mettersi in regola» con forme di lavoro subordinato. Così l’alternativa è tra il dichiarare il falso o essere licenziati. In questi tempi di crisi la verità (spesso) è di troppo.
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