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POLITICA DEBOLE, CAPITALISMO CORROTTO

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(WSI) –
Una settantina di richieste di rinvii a giudizio per la scalata Antonveneta, più una quarantina di rinvii per il caso Parmalat. È il bollettino della giornata di ieri del capitalismo italiano: una Baghdad finanziaria.

I casi a cui si riferiscono i procedimenti giudiziari non fanno parte dell’era barbarica di Tangentopoli, né del passaggio del sistema finanziario dal pubblico al privato negli Anni Novanta: appartengono al Duemila. Questa è l’Italia di oggi. Una società in cui l’ex governatore è sospettato di collusioni ai danni dei risparmiatori e in cui vengono accusati di usura i vertici di alcune tra le maggiori istituzioni finanziarie private. Anche se le inchieste non sono sentenze, le conseguenze sul Paese degli episodi oscuri venuti alla luce sono già reali. È davvero spiegabile solo con ragioni fiscali l’emorragia dei fondi comuni e la scarsa adesione popolare ai fondi pensione?

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Forse è una crisi inevitabile nella transizione da un capitalismo chiuso verso un’economia di mercato trasparente e aperta. Nei cambi di regime convivono pratiche di epoche diverse e non sempre gli errori sono veri crimini. Possiamo solo sperare che non si tratti di interpretazioni consolatorie. Vi sono d’altronde anche elementi rassicuranti, sia di carattere normativo sia di prassi dei mercati. L’Italia è inserita nel sistema regolatorio europeo e non appena si aprono i mercati – come dimostrano i casi Bnl e Antonveneta – i confini collusivi non reggono.

Ma questo significa anche che non c’è nulla di inevitabile nella palude finanziaria italiana e che non ci sono alibi per ritardare una risposta politica alla domanda di trasparenza.

Le inchieste sostengono che il sistema degli intrecci sotterranei per delinquere, degli abusi di potere e delle manipolazioni informative, non è in declino. Sotto accusa sono i comportamenti degli uomini della finanza, ma dalle valutazioni delle procure sul comportamento di referenti politici nel caso delle scalate bancarie, nonché dallo sterminato elenco dei conflitti di interesse italiani, sembra evidente che il sistema castale della finanza e quello della politica, come in passato, si sostengono reciprocamente. Nessuno è in grado di disciplinare l’altro.

La scarsa credibilità della politica si traduce in debolezza decisionale della politica stessa e quindi in debolezza del suo necessario esempio e controllo nei confronti della società. In un tale sistema sono le debolezze a essere forti e affidabili, perché si affermano l’irresponsabilità e la dipendenza gli uni dagli altri, prevale la collusione e la necessità di nascondersi. Una politica debole e un capitalismo oscuro sono l’uno funzionale all’altro. Per questo, sotto accusa è il capitalismo italiano, ma lo è altrettanto la politica.

I costi della politica raccontano solo la patina sgradevole di un sistema distratto sul bene comune, in cui manca una netta distinzione dei ruoli tra economia e politica, in cui gli uomini dei partiti interferiscono con il funzionamento del mercato e in cui l’operato delle autorità di controllo è in subordine all’interesse politico disinvoltamente contrabbandato per interesse pubblico.

Solo pochi mesi fa, in occasione di una fusione industriale, abbiamo visto modificare dal governo il quadro normativo, in piena discrezionalità, vantando lo stesso pretesto di Fazio: la tutela dell’italianità. Il precedente governo era addirittura figlio del conflitto di interessi e aveva contrastato Fazio solo quando questi aveva ostacolato un dubbio tentativo di appropriazione delle fondazioni bancarie. In tali casi l’interesse privato è perfino secondario rispetto ai guasti che si producono nella società. Si realizza una «selezione avversa» degli interlocutori politici ed economici, vengono favoriti quelli che sono pronti al compromesso e sostenuti quelli più spregiudicati.

Il fatto che siano le banche a essere coinvolte nelle inchieste delle procure è particolarmente grave. Il sistema italiano resta infatti bancocentrico, attorno agli istituti di credito si coagula un enorme potere. La nuova generazione che guida gli istituti di credito italiani non è priva di familiarità con la politica a cui talvolta manifesta vicinanza e da cui viene corteggiata. Non sarebbe in tal caso una generazione davvero nuova. Non costringerebbe la politica a migliorare se stessa. Il rinnovamento della politica e quello dell’economia devono andare di pari passo, ma questa volta non mano nella mano.

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