“Oggi molte piccole aziende sono diventate povere e molte banche sono diventate ricche”. Detta così, come ha fatto sabato a Milano il presidente della Piccola Industria Sandro Salmoiraghi tra gli applausi scroscianti dei suoi colleghi confindustriali, la battuta è di sicuro effetto anche se altrettanto di sicuro non fa giustizia dei rapporti ben più complessi che oggi – oggi più che mai, verrebbe da dire – intercorrono tra banca e impresa.
Ma certo è un problema comune a tante imprese quello che sempre Salmoiraghi tratteggia in modo colorito: «Se oggi andiamo sul mercato con i corporate bond non so che cosa riceviamo in cambio, forse un po’ di frutta e verdura che ci tirano addosso!».
E’ un problema che preoccupa non poco anche le banche che si vedono ormai costretta ad assumere, volenti o nolenti, un ruolo sempre più centrale, come ha spiegato qualche giorno fa l’amministratore delegato di Capitalia Matteo Arpe: «L’uso dei corporate bond è radicalmente diminuito anche da parte di aziende che potrebbero farlo e il riflesso paradossale della vicenda è che in questo modo il sistema sta diventando sempre più “bancocentrico”».
A caccia di fondi per crescere, ma anche per superare un momento difficile, le aziende, specie le Pmi, si trovano insomma di fronte un muro quasi invalicabile. In frenata decisa le obbligazioni aziendali – già nel 2003, segnala la Banca d’Italia, le emissioni lorde sull’euromercato sono scese a 13,8 miliardi contro una media dei 4 anni precedenti vicina ai 20 miliardi – e comunque ormai improponibili senza un rating.
In frenata – sebbene le banche assicurino che non c’è alcun «credit crunch» – anche la dinamica del credito: probabilmente non tanto e non solo per l’approssimarsi di Basilea 2, quanto per il fatto che i casi Cirio e Parmalat hanno mostrato inediti accostamenti tra politica creditizia e codice penale e più in generale hanno spinto molti istituti verso comportamenti iperprudenziali.
Sempre assai poco battuta la strada della Borsa, che già in tempi normali viene vissuta come una bizzarra eccezione ai caratteri genetici dell’imprenditore medio italiano, e in questo periodo di grande incertezza non può certo essere percorsa più del solito. Limitati, infine, strumenti che in altre parti del mondo danno più soddisfazioni, come il private equity: il bilancio 2003 si è fermato a 3 miliardi di euro, indirizzati più alle grandi imprese, che in teoria avrebbero ben altri strumenti a disposizione, che alle Pmi.
Un quadro desolante al quale anche le banche stanno cercando di porre rimedio con risposte diverse. Sempre al convegno di Confindustria, l’amministratore delegato di banca Intesa Corrado Passera ha spinto l’idea che le banche possano usare strumenti diversi dal credito tradizionale, ad esempio forme «di quasi capitale, che consentano alle aziende che non possono quotarsi ma che hanno bisogno di capitale di aprire agli istituti», con il corollario di trasparenza che questo comporta.
Una soluzione diversa ma tesa a risolvere lo stesso problema sta già provando a metterla in pratica Unicredit: con il primo «bond di distretto» appena lanciato ha rispolverato un tema – quello del distretto industriale – che la maggioranza degli economisti considera superato e l’ha portato sul mercato finanziario, cedendo a un veicolo appositamente costituito i crediti per 230 milioni concessi a 471 Pmi venete.
Tutto da fare, insomma, mettendo al lavoro la concretezza dei numeri ma anche un po’ di fantasia nelle formule. E tutto non solo nell’interesse delle imprese ma anche in quello delle banche, visto che il rischio – se nel giro di un paio d’anni i crediti difficili dovessero trasformarsi in sofferenze – è che tutti si ritrovino più poveri.
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