La recente impennata dei prezzi petroliferi – sostenuta dalle tensioni geopolitiche in Iraq, dalla forte domanda e dai problemi del colosso energetico russo Yukos – vede fra i propri responsabili vede anche gli hedge-fund, i fondi speculativi ad alto rischio statunitensi.
Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, l’ingresso di questi fondi sul mercato energetico ha generato una serie di effetti a catena capaci di contribuire in maniera consistente a fare salire il costo del petrolio. L’opportunità di investire nel settore e portare a casa ottimi risultati dal punto di vista economico ha fatto si che si sia scatenata una forte speculazione alla quale sono seguiti, immancabilmente, i rialzi dei prezzi.
In pratica una situazione da ‘gatto che si morde la coda’, con conseguenze importanti per la congiuntura internazionale ma che non sembra avere intenzione di volgere al termine. A giudizio del Wsj, infatti, i fondi ad alto rischio – alcuni legati a istituti di credito di spicco – hanno visto crescere i loro guadagni grazie agli investimenti nel petrolio, tanto da pianificare nuovi investimenti nel comparto.
Tra i più attenti – osserva – il quotidiano newyorchese – spiccano Centaurus Energy creato da John Arnold (ex manager della Enron), capace di 200 milioni di dollari di profitti grazie al greggio. O i fondi dell’industriale Boone Pickens (550 milioni di dollari negli ultimi due anni), oltre a colossi come Tudor Investment Corp. e D.E. Shaw&Co, che gestiscono oltre 8 miliardi di dollari ciascuno. A questi vanno poi aggiunti i fondi legati a grandi gruppi come AAA Capital (controllato da Citigroup) cresciuto del 24% quest’anno grazie al petrolio o istituti come Morgan Stanley il quale – lo scorso venerdì – ha annunciato di volere spendere 775 milioni di dollari per acquisire i diritti su 24 milioni di barili di greggio prodotti nei prossimi 4 anni dalla Anadarko Petroleum.
E se negli Usa si putna il dito sugli hedge-fund, l’Europa non manca di bacchettare le grandi imprese petrolifere e i paesi produttori di greggio, accusandoli di avere investito poco nel settore negli ultimi anni. Secondo l’Oxford Institute for Energy Studies e diversi analisti della City di Londra, l’attuale crescita dei prezzi è legata anche alla mancanza di spese da parte delle aziende del settore e dei Paesi produttori i quali si sarebbero accontentati delle attuali fonti senza andare alla ricerca di nuovi pozzi e senza destinare denaro per l’innovazione e lo sviluppo.
Adesso – viene osservato da Robert Skinner, direttore dei gruppi di ricerca dell’Oxford Institute for Energy Studies, ripreso dai media internazionali – le aziende sarebbero anche pronte a investire ma in un “petrolio molto difficile e costoso da ottenere come quello delle acque profonde dell’Africa o dell’Est o del Golfo del Messico”. Invece di di investire – ha osservato un analista della banca Barclays, Paul Horsnell – “molte compagnie petrolifere si sono sbarazzate di ingegneri e geologi e si sono dotati di contabili, avvocati e specialisti della finanza”, perdendo di vista l’importanza della scoperta di nuovi giacimenti.